Salvini ha ragione solo sull’euro (ma il resto conta molto meno)

Alberto Bagnai 26 Giugno 2015

L’invito rivoltomi da «Il Fatto Quotidiano» a commentare il programma economico della Lega è un’occasione per leggere un documento del quale, lo confesso, fino ad oggi sapevo solo quanto ne avevo sentito dire da un brillante esponente della minoranza Pd: “Alla fine, sei punti su dieci sono giusti”. Soffocando il “retroscenista” (leggi: pettegolo) che è in me (si dice il peccato ma non il peccatore), entro nel merito. Avverto di essere in conflitto di interessi. Ad oggi, infatti, la Lega resta l’unica forza politica a fondare il proprio programma sul superamento dell’euro, elemento a mio avviso cruciale, se non altro perché le circostanze potrebbero imporcelo (come la telenovela greca ci ricorda quotidianamente, e come ho argomentato nei miei ultimi due libri). L’analisi dei limiti dell’ Eurozona svolta nel programma è inoppugnabile e ormai non solo condivisa, ma anche espressa (gaudeant angeli!) da politici di sinistra come Stefano Fassina (l’ultima volta ieri a Omnibus, La7).

Duole dirlo, a un abitante di Roma ladrona, ma a Salvini è chiaro quello che sfugge a tanti politici più forbiti di lui: che il superamento dell’euro è condizione necessaria, ma non sufficiente per riappropriarsi della politica di bilancio. L’austerità, secondo lo stesso Monti, non serviva a risanare i conti pubblici (che infatti lui ha peggiorato), ma a riequilibrare i conti esteri, abbattendo le importazioni e favorendo, via disoccupazione, il calo del costo del lavoro. L’euro è questo, se piace: una suicida disoccupazione competitiva, praticata solo nell’Eurozona, al posto di fisiologici riallineamenti del cambio, praticati ovunque.

I restanti punti dipendono dal primo, e con alcuni il tempo è già stato galantuomo: sulla riforma Fornero si è espressa la Consulta, sul no all’immigrazione incontrollata il compagno Hollande, sull’illegittimità del Fiscal compact Giuseppe Guarino, sulla necessità di politiche di sostituzione delle importazioni opinionisti di sinistra come Guido Iodice, sui pericoli del TTIP gli stessi studi pro-TTIP, che documentano vantaggi irrisori, a fronte di rischi dei quali poco si sa, dato che le trattative sono super segrete (e se lo sono ci sarà un perché!), sul fallimento delle politiche di trasferimento nel riequilibrare i divari regionali autori come Vladimiro Giacché (per la Germania) o Giuseppe Travaglini (per l’Italia): non proprio dei neoliberisti.

Né a me, né a questi colleghi, la proposta leghista di ripristinare una flessibilità di cambio fra Nord e Sud Italia tramite valute regionali sembra praticabile. Il punto più controverso però è un altro: la proposta di una flat tax sul reddito, punto che figura anche nell’agenda del Washington Consensus, il programma ultraliberista propugnato a partire dai tardi anni ’80 dal Fmi con esiti devastanti. La sinistra acritica ha usato la flat tax come “pistola fumante” per inchiodare Salvini al suo preteso liberismo, e invocando la progressività sancita dall’art. 53 della Costituzione. La prima polemica è strumentale: con la loro idolatria del vitello d’euro i colleghi di sinistra finiranno per portarci il Fmi in casa, come in Grecia, e allora sì che il liberismo sarà un problema! La seconda è infondata: la progressività, per il costituente, riguarda il sistema fiscale, non le singole imposte, altrimenti dovremmo abolire l’Iva, tipicamente regressiva; la letteratura scientifica chiarisce inoltre che flat tax e progressività possono convivere adottando un adeguato sistema di deduzioni.

Le mie perplessità sono altre: il fatto che la casistica sulla quale valutare simili riforme è ancora ristretta, per cui i risultati presentano ampi margini di incertezza; il fatto che gli studi che promettono miracoli (crescita, recupero dell’evasione) si basano su modelli di equilibrio generale controversi (guarda caso, simili a quelli usati per valutare il TTIP); infine, volando più basso, il fatto che di solito la flat tax porta a un calo del gettito dell’imposta sul reddito, cui si supplisce o con una patrimoniale (come a Hong Kong), o con imposte indirette (come nell’Est Europa). La prima soluzione è esclusa dalla Lega, che si schiera, non senza motivi, contro la retorica pikettiana del tassare i “grandi patrimoni”, che poi, caro lettore, sarebbero il tuo e il mio (i ricchi veri sono evanescenti per il fisco).

La seconda soluzione sarebbe regressiva (ma ricordo che l’Iva sta aumentando ovunque perché “ce lo chiede l’Europa!”). Esposte le mie perplessità, permettetemi una chiusa politica. A me non pare che il problema dell’Italia sia quanto è liberista Salvini. Mi preoccupa di più il fatto che se gli italiani hanno un’esigenza fondata, come quella di confrontarsi con un fisco meno esoso e bizantino, e un politico conservatore la raccoglie, la reazione a sinistra è “Non possiamo inseguire la Lega sui suoi problemi” (testuale). Un problema degli italiani non diventa un non problema se ne parlano le persone che il Santo Sinedrio della Sinistra (SSS) inappellabilmente giudica “sbagliate” (salvo apprezzarle a telecamere spente). Trovo esecrabile una simile ipocrita tabuizzazione, in un momento in cui abbiamo bisogno di coesione e pragmatismo. Ma forse sono strano io.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2015

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