La guerra a Trump non è di tutta l’Ue

Giorgio La Malfa 31 Maggio 2017

Le parole della cancelliera tedesca Merkel nel corso di una manifestazione politica in Germania, a poche ore dalla conclusione dell’incontro, non lasciano dubbi: «I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri – ha detto – sono passati da un bel pezzo, questo ho capito negli ultimi giorni». Ed ha aggiunto, in aperta polemica con gli Stati Uniti: «Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani». Ed ha indicato alcun campi per una più stretta cooperazione.

Non è la prima volta che nascono incomprensioni fra l’Europa e gli Stati Uniti, ma forse è la prima volta che i protagonisti, invece di minimizzare le divergenze, affidando alle diplomazie la ricerca dei punti di incontro, manifestano apertamente i contrasti e propongono di trarne le conseguenze politiche. Le vicende del G7, nonostante gli sforzi del governo italiano di mettere in luce i punti di convergenza, sono probabilmente destinate a segnare in maniera profonda i rapporti fra gli Stati Uniti e l’Unione europea ed in particolare i rapporti con la Germania.

Vista la dimensione che, con le parole della Merkel, lo scontro ha assunto, per capirne di più bisognerebbe avere maggiori informazioni sullo svolgimento della riunione di Taormina e sul punto che ha scatenato la polemica. I giornali accennano all’orientamento di Donald Trump di rifiutare l’accordo di Parigi sul clima, ma che questa sia la posizione americana non può avere preso di sorpresa i paesi del G7. Né, ritengo, che l’oggetto del contendere siano stati i rapporti con la Russia, che tutti vorrebbero migliorare, anche se i comportamenti concreti del governo russo non rendono facile questa evoluzione.

L’impressione è che il punto dolente siano state le dichiarazioni di Trump sull’eccesso di esportazioni tedesche, specialmente di auto, verso gli Stati Uniti. Trump deve avere chiesto un’autolimitazione da parte della Germania, in mancanza della quale il governo americano potrebbe decidere di introdurre misure di protezione del proprio mercato interno. È probabile che su questo sia venuto lo scontro, perché la Germania non accetta limitazione alcuna alla propria capacità di invadere i mercati esteri. La tesi tedesca è che i consumatori comprano i prodotti tedeschi perché sono migliori di quelli dei loro concorrenti e che, stando così le cose, non è pensabile che la Germania riduca la competitività dei propri prodotti solo per venire incontro all’insufficiente capacità concorrenziale altrui.

Di questi temi si discute, non solo fra Germania e Stati Uniti, ma anche in Europa perché vi è un ingente surplus commerciale tedesco al quale la Germania si rifiuta di porre rimedio nel modo più semplice e diretto che è quello di aumentare la domanda interna, contribuendo così a riequilibrare i conti con l’estero propri e degli altri Paesi dell’Unione. Credo che sia stato questo il tema di fondo dello scontro nel G7 fra gli Stati Uniti e la Germania. Aldilà delle polemiche immediate, esso dovrà essere risolto con molto buon senso da una parte e dall’altra. Perché se è vero che un paese non può volontariamente rendere meno competitive le proprie merci, esso può stimolare la domanda interna e in tal modo da aiutare gli altri paesi a esportare di più.

Ma su questo punto la Germania reagisce da sempre in modo assolutamente negativo, sia in seno all’Unione Europea, sia a livello internazionale. Ma, se è così, che senso avrebbe una maggiore integrazione europea che riprodurrebbe esattamente questa filosofia che lascia alla Germania i vantaggi della crescita ed agli altri il peso dell’austerità? Del resto, accanto alla proposta di una maggiore cooperazione sul tema delle migrazioni o di una accelerazione dell’integrazione in campo militare, nelle proposte della Merkel di ieri c’è la richiesta, già ripetutamente avanzata, di eleggere un presidente tedesco alla Banca centrale europea rovesciando così completamente le politiche che la Bce ha seguito in questi anni. Se ne è avuta una chiara conferma oggi nelle parole di Mario Draghi davanti al Parlamento europeo, con le quali se da un lato egli ha dato conto di una certa ripresa economica nell’eurozona, dall’altra ha confermato la necessità di continuare con politiche monetarie che aiutino a tenere bassi i tassi dell’interesse. Se il candidato della cancelliera Merkel venisse eletto alla guida della Bce, la filosofia di Draghi verrebbe totalmente stravolta.

Queste sono le ragioni per le quali la proposta tedesca di una maggiore integrazione europea va studiata a fondo con molto spirito critico, prima di abbandonarsi a un superficiale entusiasmo. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea porta con sé uno squilibrio politico in seno all’Unione: aumenta a dismisura il peso della Germania, che a stento può essere contenuta da una Francia indebolita. Il rischio di un’accentuazione dell’integrazione europea in queste condizioni è di plasmare solo sulla Germana le istituzioni europee, dando a questo Paese una posizione troppo preminente, sia in campo economico, che in campo politico e sociale.

Oltre sessanta anni fa, in un celebre discorso rivolto alla gioventù tedesca, Thomas Mann disse che la Germania doveva riuscire a rassicurare i popoli dell’Europa circa le proprie intenzioni di fondo. Volevano essi – chiese Thomas Mann – una Germania europea oppure volevano un’Europa tedesca? Ancora ieri dietro le parole delle Cancelliera Merkel quale profilo si intravede: quello di una Germania europea, o quello di un’Europa tedesca?

La presenza della Gran Bretagna in seno all’Unione Europea e i profondi vincoli di amicizia fra l’Europa e gli Stati Uniti hanno garantito a lungo che si andasse verso un’Europa unita fondata su un equilibrio fra i paesi membri. La cancelliera Merkel ha detto ieri che l’Europa deve prendere nelle proprie mani il suo destino. Ma questo destino deve essere quello di tutti i Paesi europei. Non può coincidere con quello della Germania.

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 30 maggio 2017

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