La trappola nascosta nel cambio fisso

Alberto Bagnai 21 Maggio 2014

All’ultimo cenacolo della FULM, animato da Paolo Savona e Giorgio La Malfa, Gianni Bulgari ha fatto un’osservazione che aveva già sviluppato sul «Corriere della Sera» del 25 marzo scorso, e sulla quale vale la pena di riflettere. Secondo Bulgari, posto che la moneta è una delle espressioni più significative della sovranità di uno stato, una moneta come l’euro, priva di un’entità statuale di riferimento, nei fatti coincide con un accordo di cambio fisso. Dato che gli Stati Uniti d’Europa, ipotetico “stato” di riferimento dell’euro, sono un progetto chiaramente antistorico e quindi destinato al fallimento, il destino dell’euro andrebbe valutato, in termini economici e storici, in base alla stessa logica che ha giudicato (e condannato) i precedenti accordi di cambio fisso.

Un’osservazione sensata, da corredare con un dettaglio tecnico non indifferente. In un accordo di cambio il cambio non è fisso per decreto divino, ma perché le banche centrali dei paesi coinvolti intervengono attivamente per mantenerlo tale. Se un paese si trova in deficit di bilancia dei pagamenti, significa che deve fare più pagamenti all’estero di quanti ne riceva: in pratica, offre molta valuta nazionale per acquistare valuta estera, e la sua valuta nazionale tende a deprezzarsi (legge della domanda e dell’offerta).

Perchè questo non succeda, la Banca centrale nazionale deve acquistare la valuta nazionale in eccesso di offerta, dando in cambio valuta estera (le famose riserve ufficiali). Sfugge a molti che questo meccanismo definisce un segnale di stop loss, cioè mette un termine al tergiversare dei politici. Il motivo è semplice: quando le riserve ufficiali terminano, il cambio non può più essere sostenuto, la politica deve cedere il passo, e la parola passa al mercato, che definisce un cambio più in linea coi fondamentali dell’economia.

L’euro è un accordo di cambio fisso molto particolare: la parità fra euro italiano ed euro tedesco è uno per definizione, quindi non deve essere difesa drenando riserve. Questo, però, non significa che non ci sia trasferimento di risorse all’estero. Invece dei dollari o dei marchi della Banca centrale, stiamo cedendo all’estero le nostre migliori aziende e i nostri giovani migliori. Il problema è che in questo caso non esiste uno stop loss chiaro, non esistono limiti al male che politici incompetenti e collusi con interessi esteri possono farci. Questo è il motivo per il quale la crisi dura da sei anni. Starà a noi dare lo stop loss alle prossime elezioni.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2014

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