L’acqua calda della Bce

Alberto Bagnai 2 Agosto 2015

La crisi greca è finita come anticipavo su queste pagine il 7 luglio: da Leonida, Tsipras si è rapidamente trasformato in Pirro. Si è aperta così la stagione dei riposizionamenti. A promuoverli non pare sia stata la constatazione della insanabile antidemocraticità dell’euro – un regime nel quale burocrati privi di legittimazione e responsabilità politica tengono sotto scacco governi democraticamente costituiti. In effetti, il caso greco prova come l’indipendenza della Bce equivalga alla possibilità di violare il proprio mandato per fini politici, senza render conto ad alcuno.

Dopo non aver garantito la stabilità dei prezzi, mandando l’Europa in deflazione, la Bce durante la crisi non ha garantito nemmeno il funzionamento del sistema dei pagamenti, chiudendo per ripicca le banche greche. Tuttavia quanto ciò sia preoccupante “laggente non lo capiscono” e la troika preferisce occutarlo. A scoperchiare il vaso di Pandora è stata però la scoperta che l’euro non è irreversibile. Lo ha affermato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble durante la crisi, proponendo alla Grecia un piano di uscita assistita, e lo ha ribadito il 28 luglio l’autorevole comitato di esperti del governo tedesco, chiarendo come sia interesse di chi vuole mantenere in vita l’euro prevedere regole di uscita, cui ricorrere come extrema ratio nel caso in cui la crisi di singoli membri metta a repentaglio la sopravvivenza del sistema.

Duro colpo a quella che in Rethinking the union of Europe post-crisis (Ripensare l’unione dell’Europa dopo la crisi, Cambridge University Press) Giandomenico Majone chiama “la cultura politica dell’ottimismo totale”: l’idea che siccome tutto andrà bene (perché la “politica” ha deciso che non potrà andare che bene) non sia necessario prevedere alcun piano alternativo, alcuna strategia di gestione del rischio. Un’idea delirante e blasfema: proclamando di aver creato una cosa eterna, i grigi Eichmann di Bruxelles si sono sostituiti alla divinità, che, com’è noto, in genere non apprezza tali surroghe.

Ira degli dei a parte, in qualsiasi azienda chi ragionasse così durerebbe una settimana. La caduta del dogma costringe ora i decisori politici e i loro media da riporto a venire a patti con la realtà, pena una pericolosa perdita di consenso nel momento in cui dovessero essere chiamati a gestire un piano B (l’esempio di Tsipras è eloquente). I rapporti ufficiali delle istituzioni proclamano così verità scientifiche e fattuali che finora avevano relegato nelle note a piè pagina, nonostante fossero prevalenti nella dottrina economica.

Buona ultima la Bce, che scopre l’acqua calda: l’euro non ha favorito la convergenza fra le economie europee, e ha particolarmente danneggiato l’Italia. Il primo punto consegue da un fatto già ammesso dalla Bce: la crisi dell’Eurozona è stata determinata dall’incapacità dei mercati finanziari privati nell’avviare i risparmi verso impieghi produttivi (lo ha affermato il 23 maggio 2013 il numero due della Bce Vitor Constâncio). La convergenza fra le strutture economiche ci sarebbe stata se i prestiti del Nord avessero finanziato investimenti produttivi al Sud.

Questo non è successo per tanti motivi, incluso il fatto che al Nord non conveniva: meglio finanziare il consumo da parte del Sud di beni prodotti al Nord, per far prosperare le industrie del Nord, deindustrializzando il Sud. Quanto all’Italia, era chiaro che essa sarebbe stata particolarmente sfavorita. Gli indicatori di vantaggio comparato elaborati dal CEPII (centro studi parigino) chiariscono come l’Italia partisse da un posizionamento sui mercati esteri simile a quello tedesco, se pure su un diverso livello qualitativo. In particolare, entrambe avevano un punto di forza nella meccanica (Fiat contro Volkswagen, Ferrari contro BMW).

Non è strano che l’adozione di una moneta comune, troppo debole per la Germania, troppo forte per l’Italia, abbia danneggiato di più sui mercati esteri un paese come il nostro, diretto e scomodo concorrente della potenza egemone. Da questo deriva la crisi della nostra produttività. In un’economia di mercato si produce per vendere: entrando in un sistema che penalizza l’accesso al mercato estero l’incentivo a innovare processi e prodotti viene meno, soprattutto se un mercato del credito distorto, offrendo denaro troppo a buon mercato, consente comunque di vivacchiare. Semplici verità che gli economisti affermano fin da Adam Smith, ma che i corifei del nostrano autorazzismo preferiscono ignorare, perché non funzionali alla denigrazione del paese che odiano: il nostro.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 1 agosto 2015

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