Le celebrazioni che non ci salveranno

Giorgio La Malfa 28 Marzo 2017

Le celebrazioni delle ricorrenze storiche non sono mai o quasi mai le occasioni per far fare dei passi avanti nella soluzione dei problemi aperti. Normalmente, i passi avanti nelle questioni che dividono gli Stati, richiedono negoziati serrati, fuori dalle luci della ribalta, possibilmente affidati non ai Capi di Stato o di Governo, ma ai ministri del settore o, ancor meglio, a funzionari anonimi che, in caso di necessità, possano essere smentiti. In seno all’Unione europea di problemi aperti fra i Paesi membri ve ne sono molti – dalle questioni dell’immigrazione, agli indirizzi di politica economica, al ruolo rispettivo dei governi e dei vari organismi dell’Unione. Sono problemi aperti da molti anni che si ripercuotono sempre di più nelle pubbliche opinioni provocando la flessione che si registra in tutti i paesi del consenso verso l’integrazione europea. Sarebbe stato sorprendente se, vedendosi a Roma a sessant’anni dalla firma dei Trattati europei, i capi di Stato e di Governo dell’Europa di oggi avessero magicamente trovato un punto di equilibrio fra le posizioni in conflitto che hanno paralizzato in questi anni l’Unione Europea.

Non ci si poteva attendere questo risultato e non lo si è avuto. Queste manifestazioni hanno, però, un altro merito, da non sottovalutare. Se non consentono passi in avanti, bloccano i passi indietro. Costringendo a un’unità di facciata, obbligano a ribadire, pur se in un linguaggio genetico, le ragioni dell’unità rispetto ai motivi di divisione. Non è poco ed in questo senso Roma è stata e si dimostrerà utile. Dunque la cosa importante è che i Capi di Stato e di Governo, nonché gli esponenti delle tre istituzioni comunitarie Consiglio europeo, Parlamento europeo e Commissione europea, abbiano ribadito le ragioni dell’unità. La dichiarazione solenne che essi hanno prodotto fa quello che si può fare in casi come questi. Afferma i punti condivisi e sorvola sui punti di contrasto. L’abilità delle diplomazie è quella di limare i testi, aggiungendo delle parole, togliendone altre e sostituendone altre ancora consentendo, alla fine, che tutti trovino, nei documenti, quello che desiderano trovarvi, facendo finta di non vedere le cose che contraddicono le proprie opinioni.

Va letto, con questa premessa, il punto della solenne dichiarazione di Roma che riguarda specificamente i problemi economici. In essa i capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea si dichiarano impegnati ad adoperarsi per:

«un’Europa prospera e sostenibile; un’Unione che generi crescita e occupazione; un’Unione in cui un mercato unico e forte, connesso e in espansione, che faccia proprie le evoluzioni tecnologiche, e una moneta unica stabile e ancora più forte creino opportunità di crescita, coesione, competitività, innovazione e scambio, in particolare per le piccole medie imprese; un’Unione che promuova una crescita sostenuta e sostenibile attraverso gli investimenti e le riforme strutturali e che si adoperi per il completamento dell’Unione economica e monetaria; un’Unione in cui le economie convergano; un’Unione in cui l’energia sia sicura e conveniente e l’ambiente pulito e protetto». 

Mentre in premessa si afferma:

«Per il prossimo decennio vogliamo un’Unione sicura, prospera, competitiva, sostenibile e socialmente responsabile, che abbia la volontà e la capacità di svolgere un ruolo chiave nel mondo e di plasmare la globalizzazione».

Una dichiarazione generica? Molto.

Equivoca? Quanto basta.

Impegnativa per i governi? Non troppo, dal momento che essi si impegnano non a delle specifiche politiche, bensì a creare una Unione che a sua volta faccia quelle politiche!

Nel merito, come era inevitabile, è un testo double face. Vi si può leggere la conferma della politica dell’austerità cara alla Germania: va in questo senso l’accenno alla “moneta ancora più forte” e alla crescita sostenuta “attraverso le riforme strutturali” – parola chiave con cui ci si riferisce agli interventi sul mercato del lavoro volti a rendere il lavoro più flessibile e, in definitiva, i salari più bassi. Ma vi si può leggere anche un impegno a una diversa e più solidale politica europea: si legge infatti di un’Europa “che generi crescita e occupazione” o di un’Europa che promuova gli investimenti. Quanto all’Unione monetaria, l’auspicio al “completamento dell’Unione monetaria”, è buono per gli uni come per gli altri. Si può completare l’Ume, come vorrebbe il Ministro delle finanze tedesco Wolfgant Schäuble, con impegni draconiani in materia di finanza pubblica, oppure con regole di mutualizzazione del debito pubblico o con una solidarietà europea nei confronti dei risparmiatori colpiti dalle crisi bancarie.

Non vale la pena di usare una bilancia di precisione per stabilire se siano più numerose le parole che accennano all’austerità o quelle che accennano alla solidarietà. Non era in questa riunione che potevano essere sciolti i nodi che bloccano da lungo tempo l’Unione europea al suo interno e non soltanto sulle questioni economiche. Rimane vero quello che abbiamo scritto molte volte: l’Europa non ha una visione comune del futuro dell’unione monetaria, e resterà divisa su questo punto. Ciascun paese dovrà guardare ai propri problemi e fare da sé. Se avrà successo, se riuscirà a fare ripartire la propria economia, quel Paese avrà dato il contributo migliore al consolidamento dell’Europa a sessanta anni dalla sua nascita.

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 26 marzo 2017

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