L’esempio greco: dentro l’euro non c’è sinistra

Alberto Bagnai 5 Giugno 2015

La crisi greca ha dato ai nostri politici progressisti tre importanti lezioni, destinate a cadere nel vuoto pneumatico della loro ignavia. Peccato, perché capirle sarebbe soprattutto loro interesse.

La prima lezione è che dentro l’euro non c’è spazio per la “sinistra”. Questo lo sapevano bene i comunisti italiani degli anni ’70. Marco Palombi ha riportato alla luce su «Il Fatto Quotidiano» del 19 maggio 2014 le parole con cui Barca (quello vero, Luciano) scolpì nel 1978 l’alfa e l’omega del progetto di integrazione monetaria europea: “Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia”. In cambi flessibili gli squilibri fra paesi vengono sanati dalla rivalutazione del paese forte, la cui valuta si apprezza fisiologicamente perché molto domandata per motivi commerciali e finanziari. Ma in cambi fissi questo meccanismo cade e gli squilibri devono essere sanati dalla disoccupazione del paese debole. L’austerità a questo serve: tagliando la spesa e alzando le tasse il governo costringe le imprese a licenziare o fallire, nella ragionevole presunzione che chi si ritrova disoccupato accetterà un nuovo lavoro a salari inferiori, contribuendo a rendere il paese più competitivo.

Chi vuole l’euro vuole l’austerità, cioè la disoccupazione competitiva usata come leva per svalutare il lavoro. Non pare una cosa molto “di sinistra”, vero? La crisi greca ha definitivamente chiarito questo punto. Come ha detto Schäuble allo «Zeit» il 28 maggio scorso riferendosi a Tsipras, tenersi l’euro ma non le riforme “passt nicht zusammen”. Traduco per i diversamente europei: “non sta insieme”, è incoerente volere l’euro senza volere l’austerità. Schäuble non dice queste parole perché la mamma non gli ha voluto bene da piccolo. Le dice per lo stesso motivo per il quale le dicevano Barca nel 1978, o Bersani su «Il Sole 24 Ore» del 9 agosto 2012 (“noi siamo quelli dell’euro, fedeli all’Europa del rigore”): perché è così. La crisi greca pianta quindi l’ultimo chiodo sulla bara di quelli che “un altro euro è possibile”.

La seconda lezione è più radicale: dentro l’euro non c’è spazio per la democrazia. L’euro incorpora per costruzione il dogma dell’indipendenza della Banca centrale. Il Trattato di Maastricht aggiunge ai tre poteri consueti (legislativo, esecutivo, giudiziario) un quarto potere, quello monetario, che, tenendo i cordoni della borsa ed essendo legibus solutus, di fatto comanda. La BCE non manda lettere in giro per l’Europa, facendo e disfacendo governi, perché è cattiva dentro, come ci raccontano gli intellettuali “di sinistra”, asserragliati in una visione sentimentale e favolistica della crisi per non confessare il proprio tradimento.

La BCE può mandare i suoi missi dominici perché glielo consente Maastricht, nel momento stesso in cui le attribuisce un decisivo potere di ricatto sui governi, proibendo a questi ultimi di servirsi della “loro” banca centrale come prestatore di ultima istanza. Chi tiene i cordoni della borsa comanda. L’ultima plastica rappresentazione di questo fatto la si è avuta proprio ieri: Bloomberg ci ha avvisato che per risolvere la crisi greca si stava tenendo, in una stanza della cancelleria tedesca, un incontro a tre fra Draghi, Hollande e la Merkel (donna fortunata!). Renzi non è stato convocato, nonostante il governo italiano si sia accollato via fondi “salvastati” 40 miliardi di debiti della Grecia verso le banche tedesche e francesi, di fatto salvando queste ultime. Lo ricordava Morya Longo, certo non un economista antieuro (fra lui e Krugman in effetti c’è un abisso), su «Il Sole 24 Ore» del 18 febbraio scorso. Riflettano i politici italiani su quanto sono ascoltati nell’Europa della Banca centrale indipendente (e rifletta anche il lettore, che con l’IMU ha salvato le altrui banche irresponsabili).

La terza lezione è che la politica politicante cui i nostri politici sono abituati, quella costruita attorno al feticcio della mediazione, cioè del dimezzamento della verità, non funziona più. Ne è prova Tsipras. Come avevamo previsto a gennaio, la sua vittoria ha portato a un nulla di fatto, e questo perché per raggiungere il potere Tsipras ha fatto ricorso al più bieco e menzognero populismo, continuando a proporre ai greci la moneta forte come strumento di riscatto nazionalista: “Non siamo da meno dei tedeschi, vogliamo l’euro anche noi!” Ma l’euro comporta l’austerità, e quindi per opporsi veramente all’austerità bisogna opporsi all’euro. Difficile però contestare l’euro dopo averlo presentato agli elettori come un valore. Tsipras avrebbe potuto impararlo leggendo questo giornale, e oggi glielo ricorda, beffardo, Schäuble.

Intendiamoci: non è che i nostri politici la verità non la dicano mai. Lo fanno, ma involontariamente. Un esempio? Durante la maratona elettorale, rispondendo su La 7 a chi gli prospettava alleanze col 5 stelle, Cofferati ha detto serafico: “Al Parlamento europeo lavoriamo bene insieme perché non essendoci un vero governo non c’è il solito gioco maggioranza/opposizione”. Per i nostri europeisti la dialettica democratica è un gioco, alla lunga noioso come tutti i giochi: ben vengano le sedi europee, nelle quali se ne fa bellamente a meno.

Povero Fassina! Lui che l’euro serva a svalutare il lavoro l’ha detto, e in prima serata! Ma se vuole salvarsi, novello Enea, dalle macerie della sinistra, novella Troia, temo dovrà rinunciare a portarsi sulle spalle simili Anchise, e a tenere per mano, a mo’ di Ascanio, gli utili tsiprioti nostrani.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2015

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