L’eurozona e la lezione di Bretton Woods

Alberto Bagnai 28 Luglio 2014

Se Nixon non gli avesse staccato la spina il 15 agosto del 1971, il sistema di cambi fissi di Bretton Woods avrebbe compiuto ieri 70 anni. Come osservava Gianni Bulgari sul «Corriere della Sera» del 25 marzo, una moneta unica come l’euro, non sorretta da una entità statuale né da una comune volontà politica, si riduce a un sistema di cambi fissi: la parabola del sistema di Bretton Woods può quindi darci lezioni interessanti sulla crisi dell’euro.

L’àncora del sistema di Bretton Woods era il dollaro, agganciato all’oro alla parità di 35 dollari l’oncia, e convertibile in oro su richiesta delle banche centrali. I paesi aderenti fissavano il contenuto aureo della propria moneta e quindi il tasso di cambio rispetto al dollaro. Il sistema aveva cinque caratteristiche: (1) i partecipanti si impegnavano a contenere le fluttuazioni del cambio entro il ±1% rispetto alla parità; (2) nasceva il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) con lo scopo di finanziare squilibri temporanei di bilancia dei pagamenti, che la rigidità del cambio avrebbe provocato; (3) in caso di squilibri strutturali il Fmi poteva autorizzare riallineamenti rispetto al dollaro; (4) se un paese era in posizione di surplus strutturale, il Fmi poteva autorizzare i suoi partner commerciali ad adottare politiche protezionistiche (dazi o contingenti sui prodotti del paese in surplus); (5) i residenti di un paese potevano acquistare valuta estera solo per effettuare pagamenti di parte corrente (merci e servizi) ai non residenti, ovvero, i movimenti internazionali di capitali erano ristretti. Di fatto, il dollaro diventava così lo strumento di regolamento degli scambi internazionali, assumendo il ruolo svolto dall’oro fino alla Prima guerra mondiale.

Si può discutere su come il sistema sia stato implementato, ma balzano all’occhio le differenze di concezione rispetto all’euro, nel quale: (1) non esistono margini di flessibilità; (2) non è prevista alcuna istituzione per il rifinanziamento degli squilibri esteri, dei quali ci si è limitati a negare l’esistenza fino alla catastrofe (i fondi “salvastati” si occupano degli squilibri di finanza pubblica che, come ha ammesso la stessa Bce, per bocca di Vitor Constancio, sono conseguenza e non causa della crisi); (3) le valute nazionali non esistono più e quindi non è possibile riallinearle in caso di squilibri strutturali; (4) i paesi in surplus strutturale dettano legge (anche se la “Procedura per gli squilibri macroeconomici” dal 2011 prevede sanzioni per surplus eccessivi), e (5) i movimenti di capitali sono incontrollati. Già questo fa capire quale atto di hybris sia l’euro, il sistema monetario più rigido mai concepito. È quindi nella logica delle cose che esso duri molto meno dei 27 anni del sistema di Bretton Woods, come è nella logica delle cose che una palla di vetro cadendo si frantumi, e una palla di gomma no. La rigidità resta un pregio solo in circostanze molto specifiche.

Il traguardo dei 27 anni fu ragguardevole, considerata l’asimmetria insita nell’adottare come moneta del mondo quella di un singolo paese. Questa scelta esponeva il paese egemone al dilemma esposto da Triffin fin dal 1960. Gli Usa potevano decidere di commisurare l’emissione di moneta alle esigenze interne (e alle proprie riserve auree). Così facendo avrebbero preservato la credibilità del dollaro, ma il resto del mondo si sarebbe trovato in crisi di liquidità, cioè non avrebbe avuto mezzi per provvedere agli scambi internazionali (e quindi nemmeno per acquistare i beni statunitensi). Oppure, potevano commisurare le emissioni alle esigenze mondiali, nel qual caso il resto del mondo avrebbe potuto comprare i loro beni (il piano Marshall servì a questo), ma l’aggancio con l’oro sarebbe diventato sospetto: le banche centrali avrebbero capito che c’erano troppi dollari in giro, rispetto all’oro degli Stati Uniti, e avrebbero bussato alla porta di Fort Knox per vedere il bluff. Lo fecero all’inizio degli anni ’70, e la risposta fu data da Nixon a Ferragosto del 1971: la sospensione unilaterale della convertibilità in oro.

Questa sospensione non intaccò il ruolo del dollaro, che restava garantito da un metallo più pesante dell’oro: il plutonio delle testate nucleari. Il ruolo di superpotenza degli Usa ha conservato al dollaro la sua funzione, ma il dilemma di Triffin è sempre all’opera. Gli Usa mantengono il “privilegio esorbitante” (come lo chiamava Giscard d’Estaing) di acquisire risorse dal resto del mondo semplicemente emettendo moneta. D’altra parte, però, la fuoriuscita netta di dollari dal paese (necessaria per “oliare le ruote” dell’economia mondiale), si traduce in un indebitamento strutturale netto degli Usa, perché i dollari che escono dagli Usa vengono investiti in titoli statunitensi. Questo è il motivo per il quale i grandi esportatori detengono quote notevoli di debito statunitense. Naturalmente la valuta di un paese che è costretto a essere importatore netto di merci e servizi (per fungere al tempo stesso da motore e da banca dell’economia mondiale), non è particolarmente credibile: un deficit persistente alla fine chiama una svalutazione. Siamo così in una specie di dilemma di Triffin alla rovescia, definito da Larry Summers “l’equilibrio del terrore finanziario”: smettendo di acquistare debito Usa i paesi emergenti impedirebbero agli Usa di acquistare i loro beni e comprometterebbero il proprio sviluppo; continuando a farlo, si espongono al rischio di una svalutazione delle proprie riserve in dollari.

Anche da qui ci son lezioni da trarre. La volontà di sottrarsi al potere di signoraggio degli amerikani traspare, di tanto in tanto, nei sostenitori della moneta unica: che bello rendere l’euro una valuta di riserva, per stampare e acquistare all’estero, affrancandosi dagli Usa! Ma le cose non funzionano così. Intanto, voi ce la vedete un’Europa a guida tedesca, succube di un paese che per ragioni ideologiche reprime la propria domanda interna da settanta anni, assumere al posto degli Usa il ruolo di motore dell’economia mondiale, diventando importatore netto di beni (per essere esportatore netto di euro)? Perché mai una Bce che deflaziona l’Eurozona vorrebbe reflazionare il mondo?
E poi, una “nazione” europea, nonostante i pii auspici espressi fin dal VI secolo da S. Colombano, non esisterà mai: i soldi pubblici spesi per le stucchevoli e mendaci “pubblicità progresso” sui vantaggi dell’UE sono sprecati. Per di più, in Europa ci son poche testate nucleari, e quelle poche le hanno Francia e Inghilterra, che infatti in politica estera si muovono come pare a loro (il caso della Libia lo dimostra). È quindi altrettanto improbabile che si assista in tempi rapidi alla nascita di uno Stato europeo. Senza Stato, però, non c’è moneta credibile. Questo è il motivo per il quale la Russia, volendo affrancarsi dal dollaro per regolare le sue forniture di gas alla Cina, non si è certo rivolta all’euro, ma alla valuta di uno stato che dispone di una lingua comune da secoli, e che è dotato di un discreto arsenale: appunto la Cina. Come ricorda Luca Fantacci, quest’ultima, dopo aver visto cadere nel vuoto nel 2009 la sua proposta di indire una nuova conferenza di Bretton Woods, si è disposta a fare quello che hanno sempre fatto le superpotenze emergenti: imporre al resto del mondo la propria valuta. Cosa che l’Europa non potrebbe fare, semplicemente perché si sta autodistruggendo per mantenere in vita il proprio aborto monetario: l’euro.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2014

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