L’UE e gli investimenti per l’Italia da non conteggiare nel deficit

Giorgio La Malfa 13 Marzo 2017

Di fronte all’emergere nell’opinione pubblica di critiche sempre più diffuse alle politiche europee che collegano, in particolare, la gravità della situazione economica italiana alla moneta unica e alle regole che la accompagnano, un certo numero di economisti si sta impegnando a sostenere, in articoli su vari quotidiani, la tesi opposta e cioè che l’Europa non c’entri nulla con i nostri problemi e che essi debbano essere tutti fatti risalire alle nostre responsabilità nazionali. Il più recente degli interventi così orientati è apparso su «Repubblica», in un editoriale a firma del professor Marcello Messori. Scrive il professor Messori che da parte di molti esponenti politici «per giustificare la persistenza dei problemi nazionali […] si attribuisce all’Europa la colpa della scarsa crescita italiana». Ed aggiunge, subito dopo, che questo non è vero. Più che polemizzare con l’Europa, «si tratta di chiedersi quali siano le iniziative che l’Italia dovrebbe intraprendere per allineare i suoi tassi di crescita alla media dell’euro-area».

Nell’affermazione che molti dei problemi italiani nascono dalle nostre tare storiche c’è ovviamente molto di vero: se la scuola funziona male, se la giustizia è lenta o se le banche sono male amministrate, l’Europa non c’entra – ed è giusto non alimentare l’illusione che la colpa sia tutta altrui e non nostra in parte o anche in grande parte. Ma c’è un limite: ed è che non è affatto vero, come si deduce dall’articolo di Messori, che tutto dipende da noi e nulla dall’Europa e dai suoi orientamenti. Nello sforzo di smontare una tesi politica, questi economisti ignorano i fatti e rivelano un pensiero molto conservatore, una specie di ideologia del laissez-faire vecchia maniera che ha fatto molto male all’Europa in questi anni. Si potrebbe intanto osservare al professor Messori che la scuola o la giustizia in Italia non sono peggiorate oggi in rapporto a com’erano dieci o venti anni o trenta anni fa quando l’economia cresceva. Il che vuol dire che non tutto può essere fatto risalire a questi fattori: forse allora l’ambiente economico internazionale era più favorevole e questo compensava, almeno in parte, quei difetti nazionali.

Si potrebbe inoltre fargli notare che, nel frattempo, è venuta la moneta unica con le sue regole e con le scelte della Banca Centrale Europea che hanno comportato per molti anni un tasso di cambio molto alto nei confronti del dollaro e della altre maggiori valute, un orientamento di politica monetaria restrittiva che ha fatto lievitare i tassi di interesse e regole molto, troppo, severe in materia di finanza pubblica. Insomma, la moneta unica è stata accompagnata da politiche molto restrittive che hanno danneggiato molti Paesi e soprattutto quelli come l’Italia che avevano già un’eredità pesante dal passato. Forse è la politica economica che preferiscono Messori e gli altri suoi colleghi, ma non vi sono Tavole delle Leggi che la impongano o nemmeno che la suggeriscano.

Dunque, se è vero che una parte dei nostri problemi deriva da noi stessi, le specifiche circostanze che hanno accompagnato la creazione e i primi 15 anni di vita dell’euro hanno fatto altrettanti e maggiori danni. Valga il vero. Chiedo al professor Messori: ha fatto bene o no all’eurozona ed a noi che, dopo anni in cui l’area dell’euro teneva i tassi di interesse alti, finalmente negli ultimi anni la BCE abbia, superando le obiezioni tedesche, spinto in basso i tassi e reso meno costoso il credito? Ha fatto bene o no all’industria italiana che, finalmente, dopo dieci anni di sopravvalutazione, da venti mesi il tasso di cambio dell’euro sia stato fatto scivolare da 140 dollari per euro a 105 dollari, consentendo così una ripresa delle esportazioni che è la sola cosa che sta aiutando l’Italia? Ha fatto bene o no che la BCE abbia cominciato ad acquistare titoli di stato dei vari Paesi consentendo così, anche a paesi fortemente indebitati come l’Italia di potersi finanziare a costi relativamente contenuti?

Se la risposta a queste domande è positiva (e non credo che il professor Messori lo negherebbe), ciò vuol dire che le politiche europee contano e che molti dei nostri guai sono venuti da politiche europee sbagliate protrattesi troppo a lungo nel tempo. E allora si può fare un’altra domanda, che è poi la domanda cruciale. C’è o non c’è qualcosa che l’Europa potrebbe fare per aiutare i paesi fortemente indebitati, come l’Italia, a uscire dalla crisi? Per esempio, potrebbe l’Europa acconsentire a un programma eccezionale di investimenti pubblici da finanziarsi in eccesso ai limiti di Maastricht?

Che gli investimenti pubblici siano importanti il professor Messori lo sa bene. Tant’è che scrive: «È necessario tornare a una robusta crescita mediante il varo di un piano di investimenti pubblici…», e fin qui ha ragione. Poi aggiunge «senza aumentare la spesa pubblica e senza dissipare le risorse finanziare e produttive in attività inefficienti» (Sic). Ma se l’aumento degli investimenti è compensato totalmente da una riduzione delle altre spese, da dove pensa il professor Messori che verrebbe la ripresa? Certo, sostituendo spese correnti con spese di investimento potrebbe esservi un qualche effetto positivo differenziale, ma certo non altrettanto forte di quello che vi sarebbe se questi investimenti fossero fatti in deficit. Che nel periodo lungo siano meglio gli investimenti delle spese correnti è vero, ma che nel breve periodo l’economia riceva uno stimolo è altamente dubbio.

Dunque abbiamo bisogno di sostenere l’economia con il deficit. Ma qui viene il problema europeo. Se l’Europa non accetta questa impostazione – ed a oggi non dà l’impressione di poterla o volerla accettare – come si esce dalla crisi? Se l’Europa acconsentisse a un programma di investimenti da non conteggiare nel deficit – secondo una vecchia proposta che risale al professor Monti, a Romano Prodi e a tanti altri – magari chiedendo di controllare preventivamente la qualità di queste spese, allora si che noi avremmo una uscita dalla crisi. Il professor Messori potrebbe schierarsi su questa posizione o è così liberista da ritenere che il deficit faccia comunque male, come pensano i governanti e i banchieri tedeschi?

E comunque, può acconsentire l’Europa a questa politica? Per saperlo bisognerebbe chiederlo e chiederlo energicamente, e non sarebbe male se si sentisse anche la voce degli economisti che oggi invece sostengono che tutto dipende solo da noi. Dunque, gli argomenti di Messori non bastano, e servirà nella prossima legislatura un governo che non ripeta l’errore di pensare, come si è pensato finora, che per uscire dalla crisi sia sufficiente ottenere dall’Europa di ridurre il deficit più lentamente di quanto essi vorrebbero. Si è visto, infatti, che questo non basta. L’Italia ha perso tre anni. Servirà una presa di posizione più ferma, e più coraggiosa, che certo metta l’accento sulle cose da fare in Italia, ma che non si illuda che l’Italia possa uscire dalla crisi senza una svolta molto profonda delle istituzioni europee, nel loro modo di pensare e nel loro modo di governare.

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 11 marzo 2017

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