Più università, il motore dello sviluppo

Giuseppe Travaglini 10 Gennaio 2018

Alcune settimane fa, in un convegno sull’Università italiana nell’Europa di domani organizzato dal Miur a Roma, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha affermato che il Paese ha bisogno di più università. Un’affermazione nuova, in controtendenza rispetto alle vulgate degli ultimi anni secondo cui la cultura sarebbe un “lusso” e il numero degli Atenei italiani addirittura “eccessivo”.

Ma qual è il quadro attuale? Il sistema universitario italiano è composto da 67 università statali, 19 non statali e 11 telematiche. Se lo raffrontiamo con il Regno Unito emerge una sproporzione a nostro svantaggio, tra due nazioni comparabili per numeri di abitanti: 97 università in Italia contro le 161 anglosassoni. Ma anche per quanto riguarda il corpo docente e il personale amministrativo in Italia, il rapporto è sbilanciato: in Italia i docenti sono 56.480 contro i 185.580 inglesi, e il personale amministrativo in Italia è pari a 61.636 unità contro le 196.935 del Regno Unito. Insomma, un capitale umano britannico almeno tre volte superiore al nostro. E per l’Italia un deficit che toglie carburante al nostro sistema formativo superiore. E ai sui fall-out economici per innovazione e competitività.

Questo deficit è stato ricordato dal Rettore dell’Università di Urbino Vilberto Stocchi, in occasione dell’apertura dell’anno accademico. Non c’è da sorprendersi se la percentuale dei laureati italiani è inferiore alla media dei Paesi economicamente più avanzati. Non solo. L’ultimo rapporto Ocse ha evidenziato che in Italia soltanto il 18% dei 25-64enni è laureato, mentre la media Ocse è due volte più elevata. Inoltre figuriamo all’ultimo posto fra tutti i Paesi europei nella fascia dei laureati tra i 25 e i 34 anni (24,2% contro una media Ue del 37,3%).

Eppure, a fronte di queste criticità la ricerca italiana a livello internazionale si colloca ai primi posti per numero di pubblicazioni scientifiche e per citazioni. Con punte di eccellenza (si pensi al tema delle onde gravitazionali). Nel confronto Ocse con i principali paesi europei, i ricercatori italiani hanno il più alto tasso di produttività (800 articoli ogni 1000 ricercatori, contro i 450 della media europea) e il maggior numero di citazioni (1800 contro i 1450 della media europea). E tali dati appaiono ancora più sorprendenti se si osserva che l’età media di ingresso di un ricercatore è addirittura di 39 anni. E quella dei professori ordinari è di ben 58 anni.

I dati del Miur illustrano gli sforzi fatti dal sistema universitario per migliorare la ricerca e i piani formativi. Tuttavia, questi avanzamenti sono avvenuti in un contesto che ha visto dal 2009 un significativo taglio delle risorse. Come ha rilevato la Corte dei Conti, il Fondo per il finanziamento ordinario delle università è stato ridotto dell’11% negli ultimi 7 anni, con un taglio di 800 milioni. E ammonta appena allo 0,42% del Pil, contro l’1,5% di Francia e Germania. E tali risorse sono state commisurate al costo standard e alla quota premiale (anche per gli stipendi dei docenti). Con le performance degli Atenei divenute oggetto di valutazione (caso unico nella Pubblica amministrazione) da parte di un’agenzia esterna, l’Anvur. Dal cui giudizio dipende parte delle risorse erogate alle università. Naturalmente, i tagli si sono abbattuti sulla spesa per la ricerca, sul rinnovamento della didattica e sul reclutamento dei giovani studiosi (fino a tre volte inferiori di numero a quelli di paesi come la Germania), valorizzati invece presso le istituzioni estere dopo essere stati però formati in Italia.

Insomma, un quadro di trasformazioni, con taglio delle risorse e restringimento dell’autonomia universitaria. Eppure, come è stato detto, il Paese ha bisogno di università. Ed è bene che la politica e la società civile prendano coscienza di queste necessità, perché oggi serve davvero più università. Serve al Paese perché la sfida del lavoro si gioca sulla qualità della formazione. Serve alle imprese perché la competizione è nell’innovazione. Serve alle università perché la conoscenza è nella ricerca. E serve ai nostri giovani, perché una formazione superiore e qualificata rende più duttili alle continue trasformazioni di tecnologia e globalizzazione, e contribuisce a configurare nuovi orizzonti.

Perciò, abbiamo bisogno di più università. Poiché l’investimento nel sapere non è l’appendice ma è premessa per ogni idea di sviluppo. E garanzia del libero fluire delle idee in tutte le aree del sapere. A patto però che la politica e la società siano disposte a riconoscerne importanza e valore.

Giuseppe Travaglini
8 gennaio 2018, Repubblica A&F

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