Quelle tre speranze che portarono all’euro

Giorgio La Malfa 17 Maggio 2017

La complessità del problema dell’euro nasce dal fatto che in esso si intersecano, in modo quasi indissolubile, economia e politica. La convinzione o la speranza dei suoi promotori era che il successo sul piano economico della moneta unica avrebbe facilitato l’obiettivo politico di una sempre più stretta integrazione politica europea. La crisi dell’euro riflette la fine di questa illusione.

Per il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, in un libro recente che ora appare nella traduzione italiana (L’euro: come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Einaudi), «le tre speranze che avevano accompagnato la nascita dell’euro: 1) che esso avrebbe portato a una maggiore coesione europea, e quindi all’integrazione; 2) che la più stretta integrazione economica avrebbe portato a una crescita più veloce dell’economia; 3) che questa maggiore integrazione economica e la conseguente maggiore integrazione politica avrebbero garantito la pace in Europa» (p. 37) non si sono avverate e, a meno di un radicale cambiamento, non sono destinate ad avverarsi.

Stiglitz, uno dei più versatili fra gli economisti della sua generazione, capace di muoversi con sicurezza fra la teoria e le analisi statistiche, dipinge un quadro che non lascia dubbi sullo stato dell’eurozona e le sue prospettive future. «Ho descritto – scrive – i difetti di fondo della sua costruzione e spiegato come questi siano dovuti in parte a un’errata comprensione del funzionamento dell’economia, ma in parte anche alla mancanza di volontà politica e di solidarietà». In queste condizioni – aggiunge – «non si sta sacrificando solo il presente dell’Europa, ma anche il suo futuro. L’euro avrebbe dovuto ’servire’ i cittadini europei a cui oggi, invece, si chiede di accettare salari più bassi, tasse più alte e prestazioni sociali ridotte al minimo, allo scopo di salvare l’euro» (p. 312).

Dall’analisi di Stiglitz emergono tre conclusioni: «La moneta comune sta minacciando il futuro dell’Europa. Continuare a barcamenarsi come si è fatto finora non è possibile. E il progetto europeo è troppo importante per poterlo sacrificare sulla croce dell’euro. Ho dimostrato che esistono alternative al sistema attuale. La transizione a una di queste alternative non sarà facile ma è fattibile» (p.332).

Per Stiglitz le alternative sono due: o si fa un passo in avanti molto deciso nel processo di integrazione politica e di completamento della moneta unica con una vera unione bancaria, con una mutualizzazione del debito pubblico e con una diversa politica economica che consenta ai Paesi europei in crisi di riprendere il cammino dello sviluppo, oppure bisogna allentare i vincoli e restituire una flessibilità ai tassi di cambio, cioè in sostanza eliminare la moneta unica e sostituirla o con le vecchie monete nazionali o con alcune aree monetarie più ristrette. Stiglitz illustra come si potrebbe andare verso l’una come verso l’altra soluzione.

Il libro termina così, lasciando aperta la scelta fra le due alternative. Ma qui dovrebbe innestarsi l’analisi politica che invece manca. Perché è facile dire, anche ai sostenitori dello statu quo, che essi convengono con l’analisi dei limiti attuali della moneta unica e sulla necessità di un passo in avanti (anche perché essi aggiungono che i costi della rottura dell’euro sarebbero drammatici) e dunque rinviano all’obiettivo della maggiore integrazione politica che dovrebbe consentire di innestare nell’euro ciò che finora è mancato.

Ma è concreta sul piano politico questa speranza? È fattibile una riforma dell’euro? Entro quali tempi essa deve concretizzarsi per evitare che il dualismo della crescita provochi nell’Europa una questione meridionale altrettanto insolubile di quella che l’unificazione italiana nel secolo XIX ha lasciato dietro di sé?

Queste sono riflessioni politiche che sono estranee, anche se in qualche misura illuminate, dall’analisi di Stiglitz, ma che sono essenziali. Perché le due alternative non sono sullo stesso piano. Si può preferire la soluzione più Europa, ma se essa va considerata irrealizzabile, cioè utopica, allora diviene colpevole ritardare un movimento per restituire flessibilità e possibilità di aggiustamento alle economie dei Paesi dell’eurozona.

Stiglitz ha spiegato in modo magistrale metà della storia. Ora servirebbe la seconda metà: quella dalla quale dipendono le decisioni sul nostro futuro. Stiglitz ha fatto la sua parte di analista economico sopraffino. Ora il posto deve essere preso da politici dotati di altrettanta chiarezza di idee.

Giorgio La Malfa
Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2017

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