Se l’Italia finisce nel limbo della crescita Ue

Giorgio La Malfa 24 Maggio 2017

Si è saputo nei giorni scorsi che, a proposito del giudizio da dare sulla situazione economica italiana e sulle recenti decisioni del governo sulla manovra correttiva di finanza pubblica, vi sarebbe stata una contrapposizione piuttosto marcata in seno alla Commissione europea. Alcuni dei commissari sarebbero stati dell’avviso che non vi fossero le basi per un giudizio favorevole sugli effetti della manovra decisa dal governo e dunque suggerivano l’avvio di una procedura di infrazione relativamente agli impegni per la correzione dei conti pubblici. Altri, fra cui il presidente della Commissione Junker, avrebbero sostenuto invece che fosse necessaria una maggiore prudenza, anche per evitare che, avvicinandosi le elezioni politiche, i giudizi e le eventuali decisioni della Commissione europea potessero essere strumentalizzati in un senso o nell’altro.

Il documento reso noto stamattina a Bruxelles, che dà conto delle valutazioni della Commissione sui programmi economici dei paesi membri, conferma che quelle indiscrezioni erano esatte. Esso contiene infatti giudizi sull’Italia che possono essere letti tanto in un senso che nell’altro. I sostenitori del governo possono trovare conforto nello scampato pericolo rispetto al rischio dell’avvio da parte della Commissione Europea di una procedura di infrazione. «L’Italia – si legge – conferma che le misure di bilancio addizionali per il 2017 sono state prese e che, quindi, in questa fase nessun passo ulteriore è giudicato necessario per rispettare la regola del debito». Gli avversari del governo possono osservare che la formula scelta sembra indicare un certo scetticismo sui contenuti della manovra da parte della Commissione dal momento che essa attribuisce al governo italiano, e non a se stessa, la valutazione che le misure prese siano sufficienti a rispettare la regola del debito.

Altrettanto ambigua è la valutazione della Commissione sulla parte del programma economico che il governo italiano ha sottoposto alla Commissione in materia di riforme dalla cui portata dipende almeno in parte il giudizio sulla sostenibilità della finanza pubblica. Tali riforme sono, secondo la Commissione, «sufficientemente ambiziose, ma l’assenza di dettagli sull’adozione e di un calendario dell’attuazione limita la loro credibilità». Non vi è, quindi, ad avviso della Commissione, la giustificazione per una procedura per squilibri, «purché ci sia una implementazione piena delle riforme».

Entro questo impianto generale, ambiguo e sostanzialmente contraddittorio, vi sono poi delle osservazioni che più che ambigue risultano del tutto improprie. Parlando del 2018, la Commissione, infatti, scrive che è necessario che l’Italia sposti il carico fiscale dalle imposte sui fattori produttivi ad altre che siano meno dannose per la crescita. E, a questo proposito, aggiunge che il governo italiano dovrebbe procedere «reintroducendo la tassa sulla prima casa per i redditi elevati». Circa questo secondo punto, come con garbo ha giustamente fatto osservare il ministro dell’economia Padoan, spetta ai singoli Paesi decidere chi e che cosa tassare e non alla Commissione che è chiamata a dare un giudizio complessivo sulla sostenibilità della finanza pubblica, cioè in sostanza sui saldi e non sui singoli contenuti della manovra. E questo è certamente un’osservazione valida, anche perché si possono avere molte riserve sulla decisione del governo Renzi di eliminare l’imposta su tutte le prime case, indipendentemente dal reddito di chi le detiene, ma modificare le regole fiscali prima ancora di avere valutato che gettito e che effetti più generali essi comportino, è sicuramente sbagliato.

Ma ancora più grave è l’illusione in cui si culla la Commissione: che essa abbia la ricetta per coniugare la riduzione del deficit e il sostegno alla ripresa. Secondo Bruxelles, spostando le imposte dall’una all’altra categoria ma comunque prelevando di più o spendendo di meno che nei precedenti, si potrebbe riuscire ad annullare l’effetto deflazionistico della riduzione del deficit e addirittura introdurre elementi di sostegno della crescita del reddito.

È un’affermazione «coraggiosa», ma difficilmente provabile: dovremmo sostanzialmente supporre che coloro i quali riceveranno un reddito inferiore al passato, o per la minore spesa pubblica o per il maggiore prelievo fiscale cui sono sottoposti, abbiano una propensione al consumo sufficientemente più bassa di quella dei relativamente pochi che vedranno crescere il loro reddito al netto delle imposte da far sì che nel complesso la domanda complessiva aumenti. E non sembra che questo sia facile, a meno di non introdurre delle ipotesi molto stravaganti.

In realtà, l’esperienza degli anni della crisi dovrebbe avere ormai insegnato che gli effetti restrittivi della riduzione del deficit pubblico non possono essere compensati da una ricomposizione delle entrate. Per la Commissione, ripetere ancora una volta questo discorso, è il modo più semplice per evitare di dovere fare i conti sulla contraddizione essenziale fra risanamento della finanza pubblica e ripresa economica. L’Europa dovrebbe, una volta per tutte, accettare che la ripresa non può che essere affidata ad un aumento della capacità di spesa pubblica o a una riduzione del carico fiscale o ad ambedue le cose insieme: in sostanza ad un aumento del deficit. Se l’Europa volesse evitare che a fare queste politiche siano i singoli Paesi, essa dovrebbe affidare alla Commissione il compito di collaborare con la Bce in questa direzione. Ma far questo richiederebbe l’affermazione di un principio di solidarietà al quale l’Europa non è pronta, non essendo pronto il Paese principale che è la Germania. E, con tutta la simpatia che si può avere per il nuovo presidente francese, non sarà certo Macron ad avere ragione dei principi, dei giudizi e dei pregiudizi su cui si fonda la filosofia politica della Germania.

E il governo italiano? Esso sembra soprattutto soddisfatto dello scampato pericolo di Bruxelles, ma tace sul fatto che, in una fase che Draghi definisce (con un eccesso di ottimismo) di piena ripresa dell’Europa, la crescita italiana è la metà circa della crescita degli altri Paesi dell’eurozona. Magari il governo si contenta del fatto che l’Istat in questo momento sia incline a pensare che, invece di un aumento dello 0,9 per cento, nel 2017 si possa crescere di uno 0,1 di più, che corrisponde e circa 160 milioni di euro.

In conclusione, l’Europa ci ha collocato nel limbo e l’Italia sembra da un lato contenta di non essere posta alla gogna, ma rassegnata a non tentare neppure una sortita verso l’alto. Così alle elezioni ci andremo con dati pessimi, ma con il coro degli angeli che dice che siamo e resteremo in Europa. Chi si contenta…

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 23 maggio 2017

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