Trump è lì per difendere il capitalismo da se stesso

Alberto Bagnai 19 Gennaio 2017

Xi Jinping, leader della Repubblica Popolare Cinese, il paese in cui, lo ricordiamo, la governabilità che tanto piace ai nostri opinionisti è assicurata da quel pratico dispositivo che è il partito unico, e dove pareva che la tutela dell’ambiente non fosse esattamente un obiettivo prioritario, intervenendo al World Economic Forum di Davos difende ambiente e libertà (dei commerci, beninteso). Dall’altra parte, in un’intervista rilasciata a importanti quotidiani europei, Donald Trump, che si appresta a governare gli Stati Uniti, cioè la potenza egemone della globalizzazione liberista, minaccia di imporre dazi sulle automobili tedesche prodotte in Messico. In risposta a Trump, la cancelliera Merkel, quella che tanto ha fatto e sta facendo per interposta Unione Europea allo scopo di impedire a paesi quali la Grecia o l’Italia di autodeterminarsi, parla di un’Europa “padrona del proprio destino”, affermando così la sovranità di una nazione che non c’è, i fantomatici Stati Uniti d’Europa, dopo che lo scorso anno, a Verdun, ci aveva fatti commuovere con le sue accorate parole contro il nazionalismo (il quale, par di capire, diventa accettabile solo su scala continentale).

A fronte di tante apparenti contraddizioni, ci piace immaginare lo sconcerto diffondersi fra i lettori degli altri giornali italiani, quelli sulla cui ineguagliata capacità di riportare in modo distorto i dati economici ci siamo più volte soffermati. Rivolgiamoci allora ai dati per ricomporre questi apparenti accessi di delirio in un quadro sensato. Nel 2011, mentre in Italia ci veniva chiesto di sottoporci alle cure da cavallo dell’Europa perché “fuori c’è la Cina”, il surplus tedesco raggiungeva i 228 miliardi di dollari, sorpassando quello cinese (pari in quell’anno ad appena 136 miliardi). La Cina, intesa come potenza economica da cui difenderci per non restare schiacciati nell’arena della globalizzazione, ce l’avevamo in casa, e si chiamava Germania. Da allora il surplus tedesco ha veleggiato verso i 300 miliardi di dollari, restando stabilmente al disopra di quello cinese (con l’unica eccezione del 2015), e così è previsto rimanga fino al 2021 e oltre. Ora, spero di non sorprendervi se vi segnalo che come in tutti i giochi, anche in quello del commercio internazionale chi guadagna soldi (vendendo) è più contento di chi ne perde (comprando).

Secondo il Fondo Monetario Internazionale i quattro saldi esteri più grandi nel 2016, a prescindere dal segno, sono stati quelli di Germania (301 miliardi), Cina (260 miliardi), Regno Unito (-157 miliardi) e Stati Uniti (-469 miliardi). Il saldo estero si riconferma la variabile più importante da osservare per comprendere non solo lo stato di salute di un paese, ma anche l’evoluzione politica internazionale. Guarda caso, i due eventi più dirompenti per il progetto liberista (la Brexit, che ne intacca il caposaldo europeo, e l’elezione di Trump, che compromette quello statunitense), si sono verificati nei paesi con i due deficit esteri più grandi, mentre a difendere il libero mercato si schierano i paesi che ci guadagnano di più. So cosa state pensando: “E vedrai che anche stavolta Bagnai ci parla di euro: che barba!” No, cari lettori, questa volta passo: lascio che a parlarvene sia il programma economico di Donald Trump.

Parlando dei fattori strutturali del malessere economico statunitense, gli autori del programma, Peter Navarro e Wilbur Ross, dopo aver affermato il principio caro a Keynes (e al buon senso) secondo cui il commercio internazionale, per essere fonte di benessere, dovrebbe essere in media equilibrato (cioè non prevedere enormi surplus ed enormi deficit strutturali come quelli che vi ho documentato), citano come prima causa del deficit estero statunitense la manipolazione delle valute da parte di due potenze economiche: la Cina e la Germania. Testualmente: “Anche se l’euro fluttua liberamente sui mercati, nei fatti esso svaluta la valuta tedesca rispetto al valore che avrebbe se il marco esistesse ancora”. Per molti lettori questa non sarà una sorpresa: il Dipartimento del Tesoro ha ormai inserito stabilmente da due anni la Germania nella lista dei paesi manipolatori, come ho avuto modo di segnalarvi da questo giornale (la notizia non pare sia giunta ai media “mainstream”). Ma un conto è vedere la banale verità che la Germania trucca le carte affermata nel documento tecnico di un ministero, e un ben altro conto vederla messa in risalto nel programma politico del futuro presidente statunitense.

Si realizza così una facile previsione de “Il tramonto dell’euro”: Germania e Stati Uniti, essendo rispettivamente il più grande creditore e il più grande debitore al mondo, hanno interessi necessariamente divergenti, e se per la Germania è stato facile fare carne di porco di un debitore politicamente debole come la Grecia, gli Stati Uniti (come del resto il Regno Unito) non sono un debitore col quale sia facile fare la voce grossa. Mi congedo con una domanda: secondo voi, in questo appassionante duello, da quale parte ci converrebbe stare? La mia risposta è in un dato storico: noi italiani oggi saremmo molto più padroni del nostro destino (per dirla con la Merkel), se un’ottantina di anni or sono avessimo evitato di legare le sorti del nostro paese, del quale dovremmo imparare a riconoscere anche i pregi, a quelle di un paese del quale sarebbe ora di riconoscere anche i difetti: la Germania.

Alberto Bagnai
Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2017

 

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