Un libero scambio, tante bugie

Giorgio La Malfa 26 Gennaio 2018

La Cancelliera Merkel ha detto oggi a Davos che il protezionismo è grave e pericoloso. Non ha fatto nomi, ma anche se non lo ha chiamato in causa per nome, tutti hanno capito che si riferiva a Trump ed alle decisioni di quest’ultimo, annunciate ieri, di introdurre dei dazi sui prodotti cinesi e di altri Paesi. “Oggi, 100 anni dopo la catastrofe della Grande Guerra – ha aggiunto la signora Merkel – dobbiamo chiederci se abbiamo davvero imparato la lezione della storia, e a me pare di no”. Questa seconda parte delle dichiarazioni della signora Merkel è abbastanza sorprendente, perché si capisce il bersaglio della sua polemica, ma in quella che ha detto c’è un evidente imprecisione storica. Da come si è espressa, sembrerebbe che la signora Merkel ponta il protezionismo come una delle cause della Prima Guerra mondiale. Ma il protezionismo con lo scoppio della prima Guerra c’entra poco o forse quasi nulla.

Le cause della Guerra sono altre. Alle sue origini non si direbbe che vi siano stati fattori economici o politiche commerciali. Nello scoppio della Guerra pesarono soprattutto le questioni dell’equilibrio europeo venuto meno nell’ultimo quarto dell’800 con l’unificazione della Germania sotto la Prussia, con il riarmo prussiano e la conseguente paura francese, e con l’aspirazione del Kaiser a una grande forza navale e la conseguente reazione dell’Inghilterra. Insieme con questi fattori relativi al peso della Germania negli equilibri europei che ha accompagnato per secoli la nostra storia, vi fu la crisi dei due grandi regimi orientali, l’impero turco e la Russia zarista e la grande spinta verso la nazionalità di popoli dell’Europa centro orientale rimasti fino ad allora sotto il dominio straniero. In tutto questo i fattori economici c’entrano poco, anche perché il sistema europeo che prevalse fino alla Prima Guerra mondiale era essenzialmente un sistema di libero scambio sul piano internazionale, accompagnato e garantito dal gold standard e dalla sostanziale libertà del movimento dei capitali.

Dunque, per quanto si possa condividere il suo appello di oggi a evitare i rischi del protezionismo, la ricostruzione della signora Merkel non appare esatta. Il protezionismo non fu la causa della Prima Guerra mondiale. Esso semmai ne fu una delle conseguenze. O meglio esso fu causato dal fatto che nell’assetto post-bellico emerso dalla Conferenza di Parigi del 1919 non si volle o non si seppe trovare alcuna soluzione e cooperativa per la ricostruzione dei paesi belligeranti. La Francia e l’Inghilterra imposero le pesantissime riparazioni alla Germania, anche per renderle più difficile un eventuale riarmo e gli Stati Uniti, che pure erano animati dall’idealismo del presidente Wilson, non ebbero la forza di imporre la soluzione coraggiosa, quale sarebbe stata la cancellazione dei debiti, sia delle riparazioni, sia dei debiti interalleati. La questione dei debiti avvelenò per tutto il primo dopoguerra il clima internazionale. Se poi fossero cancellati i debiti, vi sarebbe stata minore disoccupazione e minori conseguenze politiche, come quelle che portarono al potere i nazisti in Germania.

Quando poi nel 1929 scoppiò in America la crisi e da Wall Street essa si estese in tutto il mondo, non trovando soluzioni comuni, i singoli paesi abbandonarono il gold standard, ricorsero alle svalutazioni competitive e al protezionismo dando vita a quelle politiche che vennero chiamate beggar thy neighbor policies – impoverisci il tuo vicino – da cui i risentimenti, le rappresaglie e infine la Guerra. Il secondo dopoguerra è stato segnato da una impostazione completamente diversa. La signora Merkel potrebbe vantare che non vi sia stato protezionismo e che anzi siano state progressivamente abbattute le barriere doganali e tariffarie. È vero, ma questo non è la causa dello sviluppo del dopoguerra. È la conseguenza di esso.

È vero che il corso del secondo dopoguerra è stato segnato positivamente dall’assenza del protezionismo, ma la ragione per cui questa strada poté essere percorsa è perché a Bretton Woods, nel 1944, vennero immaginati degli enti importanti per la cooperazione internazionale, come il Fondo monetario e la Banca mondiale, e soprattutto perché l’America con il Piano Marshall decise di aiutare la ricostruzione dei Paesi europei, dei vincitori come dei vinti. Il successo economico del secondo dopoguerra ha reso inutile il protezionismo. Non è stata l’adesione quasi morale a un regime internazionale; è stato il buon funzionamento del sistema internazionale a consentire di fare a meno del protezionismo.

Ed è su questo punto che si registra la debolezza dell’analisi della signora Merkel. Ed è partendo da questo che Trump avrà abbastanza buon gioco a risponderle. Perché l’America può dire di avere aiutato, nel momento della sua maggiore forza, alla fine della Seconda Guerra mondiale, i Paesi deboli a ricostruirsi. Mentre oggi, a livello mondiale, la Cina ed a livello sia europeo che mondiale la Germania, traggono dal libero scambio tutti i vantaggi possibili, ma non fanno assolutamente nulla per cooperare alla soluzione dei problemi del basso sviluppo del sistema economico europeo e mondiale. Ecco come verrà respinto da Trump il discorso della Merkel. Se la Cina nel mondo, e la Germania nel mondo ed in Europa, non immaginano neppure di fare quello che gli Stati Uniti fecero nel secondo dopoguerra, pensano cioè soltanto ad occupare i mercati, ma non aiutano la crescita di tutti con politiche di collaborazione, prima o poi il protezionismo è destinato a emergere. Esso è emerso negli Stati Uniti con l’elezione di Trump, che non è la causa bensì l’effetto di una situazione in cui i vantaggi del commercio internazionale non affluiscono in modo equo verso tutti.

Allo stesso modo in Europa, la crisi del processo di integrazione non è causata dall’emergere dei cosiddetti populismi. Questi sono il prodotto del fatto che il processo di integrazione europea cui si associarono negli anni cinquanta e sessanta alti o altissimi saggi di sviluppo per tutti, oggi funziona in maniera profondamente asimmetrica, allargando i divari fra le regioni forti e le regioni deboli. Forse nell’ambiente di Davos, dove tutti raccontano bugie – gli imprenditori che cercano il monopolio lodano la concorrenza, gli evasori fiscali lodano il pagamento delle tasse e il governo di libero scambio – questi discorsi possono andare bene. Ma la realtà è diversa. La Germania non ha mostrato e non mostra una leadership positiva in Europa. La Cina fa finta di non capire. Possono imporre le loro regole e coprirle del manto dell’ideologia ai piccoli Paesi. Più difficile imporle all’America.

Giorgio La Malfa
Il Mattino, 25 gennaio 2018

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