La mappa asimmetrica del potere europeo

Alberto Bagnai 7 Febbraio 2016

Le recenti prese di posizione del governo italiano nei riguardi della Commissione Europea hanno suscitato reazioni variegate. Alcuni commentatori hanno visto positivamente la fermezza del governo Renzi nel rivendicare parità di condizioni per il nostro paese. Altri, come Wolfgang Munchau su Eurointelligence del 2 febbraio, hanno parlato di un miscuglio di codardia e incompetenza: non ha infatti molto senso ribellarsi all’applicazione di regole che si sono accettate a testa bassa (responsabilità questa, va ricordato, non dell’attuale governo), soprattutto considerando che era chiaro fin dal principio quanto esse sarebbero state penalizzanti per il paese (due esempi fra tutti: l’accettazione del Fiscal compact non temperato dagli Eurobond, e l’accettazione dell’Unione bancaria non temperata da uno schema di assicurazione europea dei depositi). Altri ancora trovano che l’approccio del governo attuale sia velleitario, in quanto prima di affrontare quella che superficialmente viene chiamata “Europa” (cioè la Commissione Europea), bisognerebbe creare una rete di alleanze che consentisse di opporsi alla Germania con un sufficiente potere negoziale.

Ci soffermiamo qui su quest’ultima critica, che a nostro avviso è contraddittoria e superficiale (il che ovviamente non implica, come vedremo, che il governo Renzi stia tenendo una condotta appropriata).

I rilievi che muoviamo sono due.

Primo, se l’Europa è un luogo dove per far intendere le proprie ragioni è indispensabile andare alla guerra, allora, come dire, un luogo simile ce l’avevamo già, senza bisogno di creare l’Unione Europea, ed era anche meno disfunzionale dal punto di vista politico ed economico, perché non erano state imposte, attraverso Trattati che prevalgono sui dettati delle Costituzioni democratiche, regole economiche estremamente irrazionali (come la letteratura scientifica aveva da tempo chiarito). Quindi chi rimprovera al governo Renzi di non adoperarsi in modo ottimale per costruire “un’altra Europa” attraverso alleanze con gli altri paesi “deboli”, in realtà evidenzia, senza nemmeno avvedersene, i motivi profondi per i quali questa fantomatica “altra Europa” è impossibile. Da qui il carattere contraddittorio di queste critiche. Andrebbe riconosciuto che l’Unione Europea, concepita per abolire i conflitti fra gli Stati nazionali, si è trasformata in uno strumento per abolire gli spazi di mediazione democratica di questi conflitti, i quali quindi vanno regolati all’antica, in base ai rapporti di forza: alleandosi, e “battendo i pugni sul tavolo”. Ma il tavolo non c’è.

Secondo, chi critica l’incapacità del governo Renzi di tessere una rete di alleanze a livello europeo dimostra una conoscenza molto superficiale della mappa del potere in Europa. Il problema che l’Italia fronteggia infatti non è la mancanza di alleanze, quanto il fatto che tutti i gangli decisionali dell’apparato europeo sono infiltrati da elementi espressi dalla Germania (e in particolare dal partito della signora Merkel). Sarà utile fare un breve ripasso.

Iniziamo dal Parlamento europeo, il cui membro più longevo, che vi siede ininterrottamente fin dalla prima elezione nel 1979, è Hans-Gert Pöttering. Pöttering (classe 1945) è membro della CDU- CSU, il partito di Angela Merkel. È anche stato Presidente del Parlamento, fra il 2007 e il 2009, ma ciò che lo rende uno degli uomini più influenti a Bruxelles è il fatto di essere l’uomo di fiducia di Angela Merkel per tutte le questioni europee.

Durante la sua presidenza, il suo capo di gabinetto era Klaus Welle, che poi è diventato non a caso il Segretario Generale del Parlamento, cioè il funzionario più alto in grado di tutta l’amministrazione. Classe 1964, Welle era responsabile per le politiche europee dello stesso partito di Pöttering e Merkel negli anni ’90, poi passato nella delegazione del Parlamento europeo del PPE, per poi lavorare con Pöttering e finalmente insediarsi al vertice dell’amministrazione parlamentare.

Se ci spostiamo in Commissione, è noto persino ai giornali italiani (di solito non molto informati sulle vicende comunitarie) che il nuovo capo di gabinetto del Presidente Juncker sia il vero fac-totum della Commissione 2014-2019, colui il quale con una gestione inusualmente autoritaria sta imponendo una sua precisa linea politica, a volte anche scavalcando il Presidente. Martin Selmayr, classe 1970, è un giurista che ha studiato gli aspetti legali dell’unione monetaria, lavorando prima presso la BCE e poi negli uffici di Bruxelles della fondazione tedesca Bertelsmann. È stato lui e non Juncker a definire i limiti entro cui tutti i membri dell’esecutivo comunitario, i Commissari ed i Vice-Presidenti, possono muoversi. Un’altra manovra piuttosto spregiudicata e significativa è stata la rotazione dei direttori generali fortemente voluta e completata da Selmayr qualche mese dopo il suo insediamento.

In quell’occasione ha abilmente piazzato il suo predecessore e connazionale Johannes Laitenberger, ex-capo di gabinetto di Barroso, a capo della Concorrenza, uno dei portafogli più importanti. Johannes Laitenberger ha molte cose in comune con Selmayr. Entrambi sono giuristi, molto vicini al partito di Angela Merkel, la CDU-CSU. Laitenberger è stato il vero e proprio cane da guardia imposto dalla cancelliera a Barroso nel suo secondo mandato (2010-2014), in cambio della rielezione come Presidente della Commissione. Anche lui ha molto influenzato il lavoro della Commissione in perfetta sintonia con Berlino. Adesso è stato spostato a capo della direzione generale della concorrenza da Selmayr, senza che la Commissaria responsabile fosse proprio entusiasta. Per intenderci, è da lui che passeranno tutte le decisioni sugli aiuti di stato, come quelle per il settore bancario che l’Italia sta disperatamente cercando di ottenere.

Un posto formalmente meno importante, ma sostanzialmente decisivo, in Commissione è quello di Stefan Pflueger, che è il segretario del comitato economico e finanziario, del comitato di politica economica, e dell’Eurogruppo. Economista, lavorava nel Ministero delle Finanze tedesco, dipartimento internazionale, al tempo della crisi dello SME e quando si firmò il Trattato di Maastrich. Dal 1999 Pflueger passò a lavorare in Commissione ed è oggi il direttore responsabile dell’Eurogruppo. Conoscendo il funzionamento di questo organo importantissimo, ma poco disciplinato dai trattati, è evidente il suo ruolo determinante.

La sua controparte nel Consiglio, che è l’istituzione politicamente più importante e che rappresenta gli interessi dei governi nazionali, è Carsten Pillath, che occupa il posto di direttore generale per gli affari economici e finanziari. Sotto la sua responsabilità, non a caso, rientra la gestione dei lavori dell’Eurogruppo. Anche Pillath, classe 1956, è un economista tedesco con una lunga esperienza nel Ministero delle Finanze, dove si occupava delle relazioni con la zona euro. Nel 2006 viene nominato nel board della BEI, nel 2008 viene mandato a Bruxelles al segretariato generale del Consiglio, prima di arrivare nel 2012 al suo posto attuale. Non è un caso che i due funzionari più importanti per l’organizzazione dei lavori dell’Eurogruppo, sia dal lato della Commissione, sia da quello del Consiglio, siano due ex funzionari del Ministero delle Finanze tedesco.

Anche in seno al Consiglio il funzionario più alto in grado, il Segretario Generale, è un uomo di strettissima fiducia di Berlino, non un funzionario europeo di carriera, ma un uomo dell’amministrazione tedesca “prestato” nel 2011 all’amministrazione comunitaria come capo dell’istituzione politicamente più importante: Uwe Corsepius. Classe 1960, è anch’egli un economista, allievo di Horst Steinmann, dal 1994 impiegato presso la cancelleria tedesca, prima con Helmut Kohl, poi con Gerhard Schröder, infine con Angela Merkel. Con quest’ultima Corsepius assume la responsabilità di tutte le questioni legate all’integrazione economica e monetaria europea e dei negoziati sul budget comunitario. Nel 2011 diventa per un breve periodo lo sherpa di Angela Merkel nel G8, sostituendo il precedente consigliere della cancelliera, Jens Weidmann, che diventa il presidente della Bundesbank. Sempre nel 2011, dopo aver negoziato per conto del governo tedesco tutte le più importanti questioni europee, in barba ad ogni principio di imparzialità, Corsepius diventa il Segretario Generale del Consiglio europeo, col compito di garantire l’imparzialità nei negoziati fra tutti i paesi.

Il suo successore come consigliere principale per le politiche europee di Angela Merkel diventa Nikolaus Meyer-Landrut, classe 1960, diplomatico e grande tessitore delle relazioni fra i governi tedeschi e francesi, nonché responsabile delle relazioni con le istituzioni comunitare. Pochi mesi fa Meyer-Landrut è stato spostato sul fronte più caldo per le relazioni tedesche, come ambasciatore a Parigi. Al suo posto al fianco di Angela Merkel è ritornato Corsepius.

Il posto di consigliere principale di Angela Merkel è ovviamente un trampolino di lancio importante, come testimonia ad esempio la carriera di Jens Weidmann. Weidmann, classe 1968, economista allievo di Vaubel e Neumann, partecipa come consigliere alla preparazione dell’Agenda 2010: il programma di riforme strutturali del governo Schröder. Dal 2006 diventa consigliere di Angela Merkel e suo sherpa nel G8. Nel 2011, in barba al principio di indipendenza della banca centrale nazionale, il consigliere del capo del governo diventa il presidente della Bundesbank. Lascio immaginare al lettore le reazioni che scoppierebbero in Italia se un presidente del consiglio nominasse un suo consigliere come governatore della Banca d’Italia. La traiettoria di Weidmann è da seguire soprattutto in vista della successione a Mario Draghi nel 2019. Dopo che nel 2011 il capo della Bundesbank, Axel Weber, non riuscì a diventare il presidente della BCE, c’è da aspettarsi che nel 2019 ci riesca Weidmann.

Il ruolo di Weidmann nella Bundesbank, ma soprattutto nel board della BCE, è ben noto. Forse meno noto è quello di Sabine Lautenschläger da lui fortemente sponsorizzata. La Lautenschläger, classe 1964, è una giurista, ex capo dell’autorità di supervisione finanziaria, voluta da Weidmann come sua vice-presidente nella Bundesbank e come secondo membro tedesco nel board BCE, in sostituzione di Jörg Asmussen, le cui posizioni erano troppo spesso in sintonia con quelle di Mario Draghi.

Un altro degli uomini chiave di Berlino (e Francoforte) per tutte le questioni economiche e finanziarie in Europa è Klaus Regling. Regling è il direttore esecutivo del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) diventato poi il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), cioè il fondo che con assoluta discrezionalità e senza alcun controllo democratico decide le condizioni da imporre agli stati membri che chiedono aiuti finanziari a Bruxelles. Regling, classe 1950, è un altro economista tedesco la cui carriera si è sviluppata per oltre vent’anni fra il Fondo Monetario Internazionale e il Ministero delle Finanze tedesco, con una parentesi presso l’associazione delle banche tedesche e una banca d’affari londinese. Nel 2001, anche lui come esterno “prestato” all’amministrazione comunitaria, viene nominato direttore generale per gli affari economici e finanziari della Commissione europea, posto che ricopre fino al 2008. Dal 2008 al 2010 ritorna a Berlino come consigliere della Merkel, e poi dal 2010 diventa il capo dei vari meccanismi finanziari attraverso i quali l’Eurozona eroga i prestiti agli stati in difficoltà. È lui l’architetto dei vari “salvataggi” della Grecia, dell’Irlanda, del Portogallo, della Spagna, e degli altri che verranno… Significativa fu una sua intervista del 2010 in cui criticava duramente la Commissione per non aver adeguatamente vigilato sulle finanze pubbliche in Grecia, dimenticando di dire che il direttore generale responsabile dal 2001 al 2008 era stato lui stesso. Nel 2011 il suo nome circolò anche come candidato alla presidenza della BCE.

Per concludere con le istituzioni finanziarie di Bruxelles, a capo del Meccanismo unico di risoluzione bancaria, recentemente creato come primo pilastro dell’unione bancaria, è finita Elke König. La König è anche lei un’economista tedesca, che, dopo aver lavorato per trent’anni nel settore finanziario e assicurativo nazionale, nel 2012 aveva sostituito la Lautenschläger a capo dell’autorità federale di supervisione finanziaria. Nel 2015 è diventata la responsabile della supervisione finanziaria europea e del meccanismo di risoluzione bancaria.

I casi descritti sono solamente le punte più visibili di una rete assolutamente onnipresente che occupa tutti i nodi decisionali delle politiche europee, soprattutto le politiche economiche e finanziarie. Questo strapotere è ormai senza contrappesi, visto che il tradizionale bilanciamento fra Francia e Germania si è dissolto con la progressiva sparizione dei francesi dai posti chiave delle amministrazioni comunitarie. Questa asimmetria non è passata inosservata ai politici francesi, che se ne sono preoccupati in ritardo. Il magazine online Politico.eu ci informa in un interessante articolo, intitolato proustianamente Alla ricerca dell’influenza francese perduta, del fatto che Christophe Caresche e Pierre Lequillier, due parlamentari francesi rispettivamente di maggioranza e opposizione, hanno dedicato a questo tema preoccupante un rapporto di oltre cento pagine, che indaga le ragioni del progressivo indebolimento della Francia in “Europa”. I motivi sono diversificati e tutti però difficilmente contrastabili nel breve periodo: si va dall’allargamento a Est dell’Unione, fortissimamente voluto dalla Germania anche per crearsi una rete di stati vassalli che le consentissero di alterare i rapporti di forza nelle varie sedi europee, al mancato ricambio dei rappresentanti francesi, determinato dalla progressiva perdita di interesse delle élite francesi per le carriere europee. Un processo, quest’ultimo, degenerativo, perché naturalmente il prestigio delle cariche a Bruxelles diminuisce (e rende queste cariche meno attraenti) quanto più queste cariche diventano subalterne alla Germania (cosa che fatalmente avviene se le forze migliori degli altri paesi non vengono indirizzate verso i luoghi del potere europeo).

La Germania si trova così a godere di uno strapotere senza precedenti nella storia dell’Unione europea, strapotere che, naturalmente, va anche a suo merito. Arrivare a questo punto richiede anni se non decenni di lavoro costante da parte di un paese per “coltivare” e piazzare al momento giusto una propria classe dirigente che sia fedele agli interessi nazionali, anche a costo di calpestare quelli comunitari, come è sempre più evidente. Tuttavia così come costruire una rete del genere per piegare la macchina burocratica europea ai propri interessi nazionali è un processo molto lento, che richiede impegno costante, anche un’ipotetica inversione di rotta lo sarà, se e quando altri paesi proveranno a farlo. Non è l’Unione sognata da chi credeva nell’integrazione europea, ma è la realtà a cui siamo arrivati.

Come insegna l’esperienza britannica, anche nell’ipotesi di un governo euroscettico, per ottenere qualsiasi cosa nelle relazioni con Bruxelles è fondamentale avere una rete ampia e efficace, essere più preparati degli altri e saper anticipare tutte le questioni di importanza strategica. Il governo italiano, così come i precedenti, sembra tragicamente impreparato per perseguire qualunque strategia che non sia una totale sottomissione. D’altra parte, come il nostro breve e non esaustivo inventario dimostra, e come l’analisi di Politico.eu conferma, cercare alleanze in questo momento servirebbe veramente a poco, dato che l’unico paese mediterraneo di un certo spessore sullo scacchiere europeo, vale a dire la Francia, si dimostra, alla prova dei fatti, sostanzialmente subalterno agli interessi tedeschi, o comunque incapace, per abbandono di campo, di contrastarli e di cercare una mediazione efficiente nelle sedi europee.

Dobbiamo quindi concludere amaramente che chi rimprovera al governo Renzi di non aver tessuto una rete di alleanze prima di cominciare ad affermare il diritto del nostro paese a un pari trattamento nelle sedi europee, gli rimprovera una cosa che alla prova dei fatti sarebbe ormai sostanzialmente inutile. Nessuna alleanza sarebbe infatti in grado di riequilibrare in tempi sufficientemente rapidi  la profonda asimmetria che si è venuta costituendo lungo almeno tre decenni nella mappa del potere europeo.

Alberto Bagnai

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