L’euro e il mito della salvezza democratica: una riflessione dall’Ungheria

Stefano Bottoni 1 Novembre 2017

Nelle ultime settimane, il dibattito sull’euro si è acceso anche in quei paesi, come l’Ungheria, che non fanno parte dell’eurozona ma che nel trattato di adesione si sono formalmente impegnati ad adottare la moneta unica. A settembre, un partito di recente formazione ha ottenuto l’adesione di un centinaio di economisti ungheresi di diverse tendenze politiche ma accomunati da una visione sostanzialmente prona ai cosiddetti interessi “europei” con l’idea di un referendum sull’introduzione dell’euro. Lo slogan dell’iniziativa è chiarissimo: “Chi è contro l’euro è contro l’Europa”. L’euro è visto da ampi settori dell’opposizione politica e intellettuale liberal-socialista (ascrivibile all’area “progressista”) al governo Orbán come garanzia dell’aggancio del paese al futuro nucleo forte dell’Europa che si starebbe formando in seguito alle proposte del presidente francese Macron. Altri economisti, come Zoltán Pogátsa e Péter Róna, rivendicano da anni l’insostenibilità sociale del modello di rincorsa all’occidente attuato dai paesi post-comunisti, e fanno notare l’iniziativa sia basata sulla falsa premessa che la moneta unica abbia a che fare con lo stato, in verità per nulla rassicurante, della democrazia ungherese.

L’argomento proposto alla società ungherese (così come, da analoghi gruppi di pressione e lobbies, a quella polacca, ceca, o romena) si fonda dunque non su considerazioni economiche (difficile da proporre in un momento nel quale questi paesi crescono in media del 4% l’anno) ma sul mito fuorviante della salvezza democratica. Si afferma nero su bianco che grazie all’euro e all’“Europa” ci si possa liberare dei governi autocratici, corrotti e inefficienti che flagellano i cittadini e disturbano il sonno delle coscienze europee. Come se non sia stata proprio Bruxelles ad ignorare l’avvicinarsi della tempesta finanziaria del 2008, di cui l’Ungheria disastrosamente governata per anni dal tandem socialista-liberale fu una delle prime e principali vittime, con centinaia di migliaia di famiglie rovinate dall’esplosione della bolla immobiliare e dei mutui in valuta straniera a tasso variabile. Come se non siano stati i commissari europei – influenzati e corrotti dai grandi gruppi d’interesse – a favorire, attraverso lo scambio perverso di contributi europei a fondo perduto versus mano libera alle multinazionali nei paesi periferici, la creazione di oligarchie economiche le quali si sono trasformate presto in sistemi “neopatrimoniali” accomunati da una gestione opaca della cosa pubblica.

Il dibattito sull’euro in Ungheria e negli altri paesi dell’Europa orientale mostra ancora una volta come i problemi delle due metà del continente siano oggi saldamente intrecciati. Se coloro che nella “vecchia” e nella “nuova” Europa combattono la stessa battaglia di civiltà avessero più occasioni di incontrarsi e di scambiarsi le rispettive esperienze, uscirebbero da questi incontri non solo psicologicamente rafforzati ma anche muniti di uno strumento intellettuale che sembra perduto: la capacità di ragionare in termini comparati e soprattutto fuori da schemi mentali precostituiti.

Stefano Bottoni

(Stefano Bottoni è Senior fellow presso il Research Center for the Humanities all’Accademia Ungherese delle Scienze di Budapest. Il suo ultimo libro è  Long Awaited West. Eastern Europe since 1944, Bloomington: Indiana University Press, 2017)

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