L’inefficienza di una banca centrale indipendente

Agenor 2 Ottobre 2017

Le politiche di stimolo della domanda del secondo dopoguerra avevano portato a una crescita senza precedenti nel mondo occidentale, a una forte riduzione delle disuguaglianze, e a un aumento importante degli scambi commerciali. La crisi petrolifera dei primi anni settanta segnò un punto di svolta: a uno shock dal lato dell’offerta (impennata del prezzo delle materie prime) si rispose con un ulteriore stimolo della domanda, del resto si era “tutti keynesiani” in quel periodo. L’ovvia conseguenza fu una pressione sul livello dei prezzi; l’alta inflazione generalizzata fu l’occasione propizia per la contro-rivoluzione neo-liberista, che anziché correggere l’errore di politica macroeconomica commesso in quel frangente, promosse un rovesciamento radicale del sistema di governo dell’economia.

Al pragmatismo economico del secondo dopoguerra si sostituì l’ortodossia monetarista. Le politiche di stimolo della domanda dovevano essere bandite, indipendentemente dal contesto congiunturale. La politica di bilancio dei governi doveva essere disciplinata dal mercato, spezzando il coordinamento con la politica monetaria; ancora meglio se quest’ultima fosse stata ulteriormente limitata dal vincolo esterno di un’unione monetaria. L’inflazione, tradizionale spauracchio del capitale, venne invece presentata come il peggior nemico del lavoratore, del piccolo imprenditore, del pensionato.

Il caposaldo di questo nuovo approccio divenne l’indipendenza della banca centrale: la condotta autonoma della politica monetaria, assolutamente avulsa dalla politica e dal processo elettorale (cioè dal controllo democratico), poteva finalmente limitare la condotta della politica di bilancio del governo, che quindi doveva da allora in poi sottostare alla disciplina dei mercati privati per farsi finanziare. Le nuove banche centrali indipendenti assunsero come mandato la stabilità dei prezzi, cioè la riduzione dell’inflazione, a scapito della piena occupazione.

Il dogma dell’indipendenza della banca centrale venne accettato in Italia senza mai essere davvero discusso, fu presentato come una ineluttabile necessità alla quale molti, con grande zelo, credettero, e pochi, tacciati un po’ di arretratezza e un po’ di disonestà, no. Negli anni settanta il PCI sposò immediatamente la dottrina dell’indipendenza della banca centrale, come strumento per disciplinare la condotta della politica fiscale dei governi e perseguire con maggior forza la lotta all’inflazione. Sarà un compito interessante per gli storici cercare di capire se i dirigenti comunisti fossero consapevoli del fatto che così facendo stavano sposando in pieno i due cardini del pensiero neo-liberista, che in quegli anni si diffondeva negli Stati Uniti e che poi avrebbe portato al Washington Consensus.

Nel mondo anglosassone, culla del capitalismo, tale dogma fu almeno discusso prima di essere accettato, evidenziando i rischi a cui ci si esponeva. Il risultato fu che la separazione fra politica monetaria e di bilancio, fra banche centrali e governi, divenne più radicale nei paesi europei che in quelli anglosassoni. In Europa continentale si adottò il modello della Bundesbank tedesca, anzi si scelse di legare a questa le altre banche centrali, prima in un accordo di cambi fissi (lo SME) e poi nell’unione monetaria.

L’unione monetaria europea nacque all’interno del sistema più restrittivo e conservatore mai realizzato, disegnato a Maastricht, in cui alla politica monetaria rimaneva come unico obiettivo il controllo dell’inflazione, mentre nei paesi anglosassoni continuava a esserci anche quello della piena occupazione e della crescita. Alla nuova banca centrale comune veniva fatto esplicito divieto di cooperare e supportare la politica di bilancio dei governi, indipendentemente dal contesto macroeconomico, garantendo tale divieto con norme di livello costituzionale.

La rigidità e l’inadeguatezza di questo sistema si è rivelata in tutta la sua drammaticità a seguito della recente crisi finanziaria: in tutto il mondo ha prevalso il pragmatismo e il dogma dell’indipendenza della banca centrale è stato di fatto archiviato, la cooperazione fra autorità monetarie e di bilancio ha permesso di superare la crisi; nella zona euro invece la netta separazione fra politica monetaria e politiche di bilancio ha impedito una risposta coerente ed efficace.

Le politiche restrittive adottate fra il 2010 e 2012, periodo in cui invece sarebbero servite politiche espansive, hanno provocato una seconda e più lunga recessione mentre il resto del mondo riprendeva il suo cammino di crescita. Solo quando la tensione sociale ed economica è divenuta tale da mettere a rischio il progetto politico dell’euro, la politica monetaria ha iniziato a stimolare l’economia prima con l’abbassamento dei tassi d’interesse, poi fornendo un trilione di liquidità alle banche private, e infine immettendo due trilioni di liquidità comprando titoli di stato.

Le politiche di bilancio però hanno continuato a remare contro, adottando una posizione restrittiva, sottraendo risorse all’economia. I governi sono stati costretti a ridurre il deficit in un periodo in cui il moltiplicatore della spesa pubblica era invece positivo: in altre parole, spendendo un euro lo Stato ne avrebbe generato più di uno, spesso due, con conseguente aumento delle entrate, e quindi anche una riduzione del rapporto debito/PIL a medio termine. Tale politica di bilancio restrittiva ha annullato alcuni dei benefici potenziali della politica monetaria espansiva.

Come se ciò non bastasse, la terza gamba delle politiche macroeconomiche, la politica strutturale o dei redditi, ha realizzato negli stessi anni la più profonda e prolungata compressione dei redditi, quindi della domanda aggregata, mai realizzata dal dopoguerra: la serie più lunga di riforme strutturali del mercato del lavoro ha lasciato il potere d’acquisto dei lavoratori in uno stato languente, riducendo ulteriormente l’efficacia dell’espansione monetaria.

Due anni fa Mario Draghi si è accorto che la politica di bilancio restrittiva dei governi che cercavano di ridurre la spesa pubblica contrastava la sua politica monetaria espansiva. Oggi lo stesso presidente della BCE si accorge che anche una politica dei redditi che comprime i salari, cioè le riforme strutturali che hanno distrutto il potere d’acquisto dei lavoratori, ostacola la condotta della sua politica monetaria, che per altro più espansiva di così non potrebbe essere.

Non a caso, le proposte (o le illusioni) sul futuro della zona euro si centrano sull’urgenza di creare un bilancio della zona euro che possa agire di concerto con la BCE e sul bisogno di coordinare le politiche strutturali, fra di loro e con le altre politiche macroeconomiche. Il sistema macroeconomico europeo costruito sulla base del dogma dell’indipendenza della banca centrale mostra tutte le sue crepe, si sta cercando di correggerlo in tutti i modi prima che crolli a pezzi, ma non si ha il coraggio di denunciare esplicitamente l’origine del problema.

È interessante notare come la ragione principale per creare un bilancio della zona euro sia avere un Tesoro europeo che possa agire di concerto con la BCE, in pratica quello che l’adozione dell’euro ha reso impossibile nei singoli stati e che tutto il resto del mondo invece continua a fare. Chi oggi sostiene l’urgenza di un bilancio della zona euro ammette implicitamente che togliere ai governi il potere di gestire e stabilizzare l’economia è stato un errore.

Il “divorzio” fra politica monetaria condotta da una banca centrale indipendente e politiche di bilancio e strutturali condotte dai governi, un tempo presentato come dogma ineluttabile per il progresso economico, oggi si rivela oltre che profondamente antidemocratico, anche molto inefficiente e costoso. Gli stessi che sostennero la necessità di quel “divorzio” oggi chiedono urgentemente nuove istituzioni europee per ricostruire il “matrimonio” fra le politiche macroeconomiche.

Se non fosse anche tragico, sarebbe piuttosto comico.

Agenor

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