Libertà e schiavitù

Luciano Canfora 13 Gennaio 2016

Trascrizione della prolusione di Luciano Canfora “Libertà e schiavitù”, tenutasi alla quarta edizione del convegno internazionale “Euro, mercati, democrazia: ripensare l’unione dell’Europa” il 14 novembre 2015 a Montesilvano (Pescara).

Libertà e schiavitù

Grazie per questa occasione importante nella quale sono lieto di ritrovarmi, in un giorno non lieto, ma dolorosamente significativo.

Temo che l’argomento suggerito sia un po’ troppo accademico rispetto al carattere molto battagliero – giustamente battagliero – del convegno. Però forse una riflessione un po’ fredda sulla tematica anche lessicale, oltre che storica, di questo binomio libertà-schiavitù qualche rapporto con la vicenda della costruzione europea potrebbe averlo: e vediamo in quale delle due direzioni.

Partirei da una riflessione lessicale, vale a dire l’uso improprio di questo termine latino – libertà, libertas – che è stato assai largamente praticato.

Faccio alcuni esempi, molto noti: gli estremisti bianchi del Sudafrica avevano dato vita alla metà degli anni ’90 a un movimento politico che si chiamava Fronte della libertà.

E potremmo soggiungere che il movimento politico che contribuì fortemente ad abbattere il presidente Allende si chiamava Patria e libertà, un binomio tornato anche in altre formazioni politiche; quando la giunta dei generali traditori emise il primo comunicato alla radio – Allende si era appena suicidato – dichiarò che le forze armate e i carabineros erano uniti nella missione storica di lottare per la libertà.

Qualche anno prima – non molti anni prima – i colonnelli greci (che poi si autoproclamarono generali, dopo avere con l’aiuto della Cia preso il potere nella tormentata Grecia) diffusero un giornale che aveva un titolo sinistro: si chiamava Eleftheros kosmos, che vuol dire “mondo libero”.

Dico un titolo sinistro perché – almeno nella mia giovinezza (non vicinissima nel tempo) – la dicotomia era tra Comunismo da una parte e mondo libero dall’altra. E il mondo libero comprendeva Francisco Franco, Pio XII e via dicendo… anche Salazar, fino a che non fu cacciato.

Era dunque un uso strumentale di questa parola, nobilissima e violentata.

Ma alle origini – diciamo così – dell’uso di questo termine, che nasce nel lessico politico romano, c’è anche un elemento di sofferenza, di dialettica profonda, dal quale vorrei partire: I paradossi degli stoici, uno scritto di un signore remoto nel tempo, Marco Tullio Cicerone – che dello stoicismo non era un simpatizzante.

Uno dei paradossi degli stoici, che lui prende garbatamente in giro, è questo: “Solo il saggio è libero”. Chiunque non sia saggio non è libero (poi ci sono anche articolazioni minori, “solo il saggio è ricco”, nel senso alto del termine).

Perché questa formulazione è dirompente o può risultare tale?

Perché nasce in una società, quella arcaica, fondata su una distinzione giuridica tra schiavitù e libertà sancita formalmente. È stato detto, giustamente, che non c’è articolazione del diritto romano che non sia dicotomica, nel caso che la norma riguardi un libero o nel caso riguardi uno schiavo. La dicotomia è formalizzata. Si può fuoriuscire dallo stato di schiavitù comprando la libertà, ammesso che uno sia in grado di farlo; ma rispetto a una realtà in cui la distinzione è formalizzata, sostenere che solo il saggio è libero significa infrangere il pilastro fondamentale di quella struttura sociale.

Bisogna però anche rendersi conto del fatto che questo messaggio – così alto, se vogliamo – era anche destinato a una élite molto ristretta, per cui non scalfiva se non marginalmente l’equilibrio sociale.

Aggiungiamo anche una considerazione: che molti schiavi erano degli ex liberi, degli esseri umani che erano caduti nella condizione di schiavitù a seguito di vicende, prigionia in guerra o altro. Quindi la memoria dello status di libertà era ben presente in molti che erano nel vincolo della schiavitù: e dunque quel messaggio poteva anche essere percepito. Non mi addentro in un aspetto della questione che pure meriterebbe attenzione e cioè il fatto che all’interno del mondo schiavile c’è un’articolazione molto complicata: lo schiavo urbano, lo schiavo in miniera, lo schiavo che vive in casa, lo schiavo che diventa alter ego del padrone – Tirone rispetto a Cicerone, per fare un esempio celeberrimo.

Quindi la ferita, diciamo così, all’equilibrio giuridico stabilito dall’istituto della schiavitù rappresentata dal paradosso stoico è una ferita che può dare i suoi frutti e in un certo senso li diede.

Perché mi sono soffermato – magari troppo – su questo lato della questione? Perché la visione aristocratica della libertà che è insita in quella formulazione ritorna, potremmo dire, nel tempo e credo abbia avuto un momento di teorizzazione lucida, quasi spietata nella riflessione crociana; mi riferisco non soltanto all’intera riflessione politologica di Benedetto Croce, ma a un suo specifico scritto, che mi ha sempre molto colpito per il vigore polemico che contiene e per il momento in cui fu scritto.

Si tratta di un breve scritto a carattere panflettistico che egli compose pochi mesi prima della caduta di Mussolini – e pubblicò però un po’ dopo – intitolato Libertà e giustizia. Ed è un pamphlet indirizzato esclusivamente, potremmo dire, contro un movimento politico a lui ben noto, non legale finché non cadde il regime fascista: Giustizia e libertà, composto di uomini che molto gli dovevano e cui egli, per ragioni intellettuali, era anche legato; e questo spiega anche la durezza della polemica.

Polemica consistente nel dichiarare che la libertà non è come le noci, che si possono mettere insieme a due, a tre, a quattro: quindi libertà e giustizia – o giustizia e libertà – non hanno alcun rapporto, la libertà è inerente all’essere umano, è il suo patrimonio interiore, quindi non può essere conculcata e non può essere data.

Croce ironizza moltissimo sull’espressione “dare la libertà”. Il che è curioso, se si pensa che egli scrive questo in mesi, in settimane in cui l’auspicio di dare la libertà a quella parte d’Europa che era sotto il controllo pesante, oppressivo e feroce dell’Asse non era un auspicio filosofico, alternativo ad altre ipotesi filosofiche, era un problema politico bruciante. E questo certamente rende disumana quella riflessione, questa idea aristocratica per cui nel tabernacolo interiore della coscienza vive la verità, intangibile, in ogni essere umano. Egli aggiunge anche che coloro i quali pensarono di toglierla, questa libertà, e addirittura spensero – lui dice – alcuni uomini che di essa erano di per sé portatori, di fatto fisicamente li eliminarono, ma non estinsero il principio secondo cui ogni essere umano detiene – senza possibilità di perdite – la libertà.

Egli pensava certamente alle vittime del libero pensiero, al rogo di Giordano Bruno. È un peccato però che non pensasse anche a un uomo che era stato spento, non all’inizio del diciassettesimo secolo, ma molto più vicino a lui nel tempo; penso a Giacomo Matteotti, la cui uccisione non indusse però il senatore Croce, nell’occasione della fiducia al governo Mussolini, a togliere questa fiducia, convinto come egli era ancora che il fascismo fosse una temporanea increspatura del reale, necessaria per fermare la rivoluzione comunista, e che poi avrebbe lasciato il passo a un ritorno alla normalità liberale.

In alternativa a questa visione aristocratica io credo si debba porre in rilievo una riflessione coeva, che però si produce non in uno studio, ma in un carcere. Mi riferisco a una lettera di un uomo che si è visto togliere la libertà e che però è riuscito a scrivere pagine alle quali ancora oggi ci rivolgiamo.

Mi riferisco a una lettera dal carcere di Antonio Gramsci del marzo del ’33, una celeberrima lettera, che contiene la metafora del naufrago. Nella lettera, che egli scrive alla cognata Tatiana Schucht, il naufrago, prima di essere tale, ove gli si chiedesse se in situazione estrema l’ipotesi del cannibalismo gli appaia possibile, risponderebbe di no: riterrebbe inconcepibile di adottare una prassi come quella del cannibale. E nondimeno, se naufrago davvero e isolato e disperato e alla fine incapace di altre vie d’uscita, probabilmente arriverebbe a questo punto estremo – cosa che nella storia in realtà è accaduta, vorrei ricordare l’assedio di Atene durato mesi e mesi nel 404 a.C., che portò alla disperazione e a questi eccessi i poveri ateniesi senza pane.

Gramsci dice di se stesso: questa metafora ti spiega ciò che sta succedendo in me, una modifica molecolare, una mutazione molecolare lenta, inarrestabile di cui per fortuna continuo ad avere la consapevolezza; il mio essere – dice – si è sdoppiato in due individui, di cui l’uno osserva le modificazioni che si stanno producendo nell’altro, finché arriverà un momento in cui l’uno divorerà l’altro; questo momento non è ancora giunto.

Perché mi pare che questa riflessione tragica di Gramsci sia pertinente alla questione su che cosa sia propriamente la libertà? Perché pone l’accento su un aspetto materiale, corposo: che cioè la situazione concreta di un essere umano, lungi dall’essere lontana, remota dalla difesa del tabernacolo contenente la libertà, è il terreno fondamentale sul quale si gioca la conservazione, la difesa o la perdita della libertà.

A questa riflessione credo sia giusto accostare un’altra pagina molto significativa e tutt’altro che ottimistica di Giacomo Leopardi, il quale in un momento di riflessione affidato allo Zibaldone riflette sul nesso inscindibile tra libertà e schiavitù. Nesso ineludibile.

Egli dice di trovare spunto in questa riflessione in alcune pagine di Linguet, illuminista anomalo di metà Settecento, e in alcune frasi di Rousseau. In realtà né l’uno né l’altro dicono ciò che egli ha cavato da quello spunto. Leggo soltanto qualche riga della sua riflessione: “Credo di avere cavato questa idea da alcune righe del Contratto sociale… deduco che la abolizione della libertà è derivata dall’abolizione della schiavitù e che se non vi sono popoli liberi questo accade perché non vi sono più schiavi”.

Che cosa significa questa riflessione sull’inscindibile rapporto tra libertà e schiavitù? È nata evidentemente dalla esperienza del mondo antico, del quale Leopardi è profondo conoscitore: e cioè il fatto che la libertà di coloro che detengono questo prezioso bene, dal punto di vista dello status giuridico e sociale, in tanto sussiste in quanto c’è un mondo dipendente, un mondo subalterno. Il mondo, appunto, degli schiavi.

Ci sono modi di vedere questo rapporto, questo nesso inscindibile diversi da quello leopardiano – che è tutt’altro che euforico – e mi riferisco alla riflessione nietzschiana, secondo cui per fortuna nel mondo antico esisteva la schiavitù, perché questo fu la base del miracolo greco: che è una visione profondamente punitiva rispetto alla natura umana.

E allora, prima di procedere, mi concederete qualche minuto sul tema specifico: quello della realtà concreta della schiavitù nel mondo antico.

Quanti erano?

Abbiamo idee vaghe sull’entità del fenomeno, abbiamo vedute opposte: Aristotele ritiene che la schiavitù sia un dato di natura; la grande corrente di pensiero sofistica ritiene il contrario, che cioè la natura umana sia una sola e che tutto il resto sia convenzionale.

Ma quali sono le cifre, l’entità concreta di questo fenomeno? Ci sono spezzoni di informazione, frammenti. Anche perché di quel mondo si parla indirettamente. Come dicevo all’inizio la monumentale costruzione del diritto romano ha sempre d’occhio la duplice realtà, lo status del libero e lo status dello schiavo, però le cifre sono rarissime, di tutto il mondo greco abbiamo solo un censimento, riguardante Atene; abbiamo delle notizie riguardanti un’isola, l’isola di Chio, che era celebre per la massa enorme di schiavi. Tutto questo lo abbiamo grazie a un libro curioso, scritto da un erudito egiziano piuttosto stravagante, Ateneo di Naucrati, nato a Naucrati, appunto, al tempo dei Severi, quindi a cavallo tra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo. Ateneo dedica un intero libro alla schiavitù. È in un’opera onnivora, I sofisti a banchetto, in cui c’è di tutto, dalla gastronomia alla commedia alla curiosità storica; ma c’è un libro intero, il sesto, dedicato alla schiavitù.

Per noi è prezioso perché contiene i numeri, le cifre; ma il fenomeno curioso e interessante è che gli studiosi moderni si sono schierati in modo opposto rispetto a quei dati a seconda dei loro presupposti mentali. Curioso, questo fatto. Prendere a calci le fonti non è una procedura razionale, però discende da un pregiudizio: se una veduta nobilitante, a base umanistica, ritiene che quello sia il mondo dei valori durevoli, l’ingombro della schiavitù è disturbante. Allora può essere interessante ridimensionarne la portata.

Quindi si è scatenata nel corso del tempo una discussione se credere a quello che dice il buon Ateneo. Ateneo aveva delle ottime fonti e su questo non mi fermerò. Dirò semplicemente che nel ‘900, soprattutto dalla rivoluzione russa in avanti e poi nel secondo dopoguerra, la storiografia su quel mondo si è separata in modo netto, politicamente esplicito; e nella Germania occidentale (quando esistevano due Germanie) un’intera scuola di carattere filosofico e storiografico al tempo stesso, a Magonza, ha instaurato una riflessione raccolta sotto la formula Sklaverei und Humanität: la schiavitù c’è nel mondo antico, è innegabile, ma è colorita di humanitas.

A tal fine si possono citare strumentalmente delle fonti, e soprattutto si mette in dubbio che l’entità numerica, la massa schiavile fosse quella che le fonti ci attestano.

Perché questo? Evidentemente perché la schiavitù è disturbante, il fatto che un essere umano dipende da un altro essere umano, che è alla mercé di esso intacca ogni costruzione idealizzante, questo è ovvio.

Nel pensiero sofistico – malvisto – c’è la più importante conquista intellettuale del mondo antico e cioè la concezione unitaria dell’essere umano: l’essere umano, indipendentemente dalla condizione in cui si trova è l’incarnazione di φύσις (natura), tutto il resto è convenzione. Di lì si possono cavare deduzioni di tipo opposto, naturalmente, ma è una scoperta rivoluzionaria, alla quale in parte si oppone la scienza medica, ippocratica in particolare, ponendo l’accento sul fatto che anche la natura è un prodotto storico, quindi la dieta… perché i greci hanno vinto sui persiani, pur essendo pochissimi rispetto a una massa sterminata? Perché sono superiori, perché hanno costruito una loro identità fisica, biologica che li ha messi in condizioni di prevalere.

L’Asia è schiava, come tale, perché c’è il re di Persia, unico tiranno, despota su di una immensa massa, abbruttita, inferiore: questa inferiorità discende, dicono i medici ippocratici – in particolare il famoso trattato Sulle arie, sulle acque, e sui luoghi – dalla dieta, dal tirocinio, dal modo di gestire il proprio corpo, la propria alimentazione.

Questo razzismo “soft”, come è stato definito da Claude Calame, è l’antidoto, potremmo dire, nel pensiero scientifico medico greco alla scoperta sofistica dell’unità del genere umano.

Come si cade in schiavitù?

Ovviamente il primo strumento è la guerra.

Uno dei primi testi, forse il primo in ordine di tempo sopravvissuto di quel mondo così lontano – un tempo era anche una lettura scolastica, probabilmente non lo è più – è l’Iliade, poema feroce, che si apre con la rissa tra due esseri violenti per il possesso di una schiava. Non è nobilissimo come esordio quello dell’Iliade, ma la schiavitù è il prodotto diretto della guerra, la guerra serve – ma questo ancora secoli dopo – per procurarsi schiavi e oro.

Quando Traiano conquista la Dacia, l’attuale Romania, porta, secondo fonti molto ben informate, masse sterminate di schiavi e carri e carri e carri pieni di oro delle miniere. Questo è il veicolo della forza, della potenza.

L’altra via alla schiavitù sono i debiti: si cade in schiavitù per debiti.

Questo nella realtà arcaica del mondo greco per noi è documentato bene dalle notizie – moltissime, numerosissime – che abbiamo su un personaggio molto controverso e molto interessante, che è Solone, un signore al quale molto dobbiamo dal punto di vista della riflessione anche direttamente politologica; l’operazione che Solone instaura si chiamò “scuotimento dei pesi” (σεισάχθεια – σείω vuol dire scuotere), cioè dei debiti.

È stato detto, ed è un’osservazione giusta, che quel passaggio storico epocale – non si può cadere in schiavitù per debiti – che Solone instaura ha anche stabilito un baratro nettissimo, invalicabile tra la condizione di libero e la condizione di schiavo. E questo è tipico del mondo ateniese, dove il recupero della libertà è affidato a condizioni eccezionali: si può accumulare un peculio e con questo peculio comprarsi la libertà, ma non si diventa cittadini, diversamente che nel diritto romano, per cui l’ex schiavo che si compra la libertà diventa cittadino e addirittura viene iscritto in una delle due tribù urbane.

Il taglio dei debiti non fu semplicemente risolto dall’operazione soloniana – che è stata anche un tantino appannata nelle fonti, perché gli avversari di Solone fecero sapere che lui aveva informato in anticipo i suoi amici e quindi essi si attrezzarono per evitare di perdere ciò che in forma di crediti avevano impegnato (però noi siamo per Solone, almeno per la statura che ha conquistato storicamente nel tempo) – ma il problema rimane aperto, per cui una delle rivendicazioni costanti dei movimenti popolari è il taglio dei debiti. Perché noi ne abbiamo notizia intermittente? Intanto perché abbiamo notizia in maniera continuativa soprattutto di un mondo egemonico, Atene, capofila di un impero che sfrutta gli alleati, li spreme, quindi il popolo di Atene è, come dice Tocqueville, un’aristocrazia allargata, che si giova delle ricchezze che cava dagli alleati diventati sudditi.

Ma quando l’impero finisce, la situazione cambia e il problema dei debiti ritorna. Nel quarto secolo abbiamo un documento importantissimo, anche se forse poco studiato scolasticamente, che è il Trattato di Corinto, un trattato imposto da Filippo di Macedonia nel 336 a.C., dopo avere Filippo sconfitto una coalizione panellenica piuttosto temibile, nella celebre battaglia di Cheronea. Il Trattato di Corinto lo conosciamo da varie fonti, una delle quali è un’orazione Attica.

Che cosa vieta il Trattato di Corinto?

Vieta che si proceda a confische di patrimoni: le confische di patrimoni possono essere un pericolo se per caso i benestanti si sottraggono a certi obblighi verso la città, le famose liturgie. Vieta la divisione delle terre: il latifondo, dove esiste, non può essere intaccato con norme legislative che lo limitino. Vieta la remissione dei debiti: se qualcuno proporrà, per sanare – in certo senso – l’inquietudine sociale di azzerare il debito – un concetto che ci è un tantino familiare, tutto sommato, nei tempi nostri – questo è vietato esplicitamente dal trattato di Corinto, nel 336 a.C.

È vietato l’affrancamento in massa di schiavi “per fini eversivi” (ἐπὶ νεωτερισμῷ); perché l’affrancamento individuale è legittimo, l’abbiamo appena detto, il singolo può conquistarlo – non certo il minatore del Laurion che muore a trent’anni, perché non ha una speranza di vita più lunga – ma lo schiavo che sta in casa, lo schiavo agricolo può avere questa possibilità, individualmente preso; iniziative di affrancamento in massa sono vietate. Successe proprio a ridosso di Cheronea un episodio di questo genere, ma non è il caso di dirlo.

E soprattutto il trattato vieta la fuoriuscita dal trattato: 336 a.C.

In realtà il tema è sentito in modo profondo: intanto un criminale di genio come era Filippo II di Macedonia ha stabilito queste norme a tutela dei ceti dirigenti, che sono filomacedoni, in quanto il problema esiste ed è sentito, è percepito, altrimenti non si farebbe una normativa internazionale, sottoscritta da tutti i contraenti.

Tanto sentito che nel prosieguo di tempo – mi riferisco ancora una volta al mondo ellenistico parlante greco o comunque di cultura greca dopo Alessandro – anche una religione di salvezza introduce il tema dei debiti, l’unica preghiera cristiana attestata nei Vangeli (in due forme, ma quella più chiara è in Matteo): ἄφες τὰ ὀφειλήματα, che non vuol dire “rimetti i peccati”, ma “rimetti i debiti”, debiti nel senso materiale del termine.

Ora, a questo punto io, che ho tediato voialtri con queste malinconie remote nel tempo, vorrei fare un piccolo salto, un pochino spericolato: è convinzione consolidata, ma credo ormai fortemente in crisi, che la struttura sociale che comporta la schiavitù sia un fossile, un relitto o comunque un oggetto di studio di chi si occupa del mondo arcaico; in questo senso c’è un testo famosissimo al quale ho pensato di rifarmi brevissimamente prima di procedere.

Un testo famoso, che oserò citare pur sapendo di dire l’ovvio: i primi righi del Manifesto dei comunisti, di Marx. “La storia di ogni società sinora esistita (poi Engels in una riedizione corresse in “finora documentata”) è storia di lotta di classi: liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri di corporazioni e garzoni, in breve oppressi e oppressori sono sempre stati in conflitto tra loro – il che è verissimo – hanno sostenuto una lotta incessante, a volte occulta a volte palese, una lotta che sempre si è conclusa o con una trasformazione dell’intera società o con la comune rovina delle classi in lotta”. La seconda parte di questa frase è spesso dimenticata, ma invece credo che il tempo nostro ci aiuti a considerare che è una eventualità non inverosimile, questa seconda.

Subito dopo, nel capoverso seguente, c’è però un ritocco, potremmo dire, storiograficamente più apprezzabile: “Nelle prime epoche della storia troviamo quasi ovunque una completa articolazione della società in ordini (stände), varia e minuta gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma troviamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi…” eccetera.

Questa celebre pagina è curiosa, nel senso che – parliamo di un gigante, di un personaggio molto polemico e intollerante, ma di straordinaria vivacità e cultura – ma in questa pagina il mondo antico è visto in scorcio e in maniera non del tutto fondata; per esempio parlare di patrizi e plebei è buffo, perché esiste la nobilitas plebea, che fa parte della nobilitas dopo le leggi Licinie Sestie. Ma è chiaro che è un riferimento alla situazione arcaica di partenza. Liberi e schiavi sono l’inizio dei conflitti, quindi, è una dicotomia che appartiene a un passato remotissimo.

Non è così.

È curioso, perché lo stesso Marx poi da giornalista attivo per alcuni giornali – anche per ragioni esistenziali, di farsi pagare i pezzi che scriveva – è stato cronista acuto della guerra di secessione americana, cioè di una guerra che ha per oggetto principale la questione della schiavitù; e siamo intorno al 1860 e seguenti, i primi segni sono nel ’61-’62. L’unica guerra che gli Stati Uniti hanno combattuto sulla propria pelle, in casa loro, è quella, ed è stata sanguinosissima, tremenda (magari oggi sarebbe anche utile ripercorrerne il cammino).

Rispetto allo schema tutto eurocentrico del primo capitolo del Manifesto c’è poi il resto del mondo.

La storia di che cosa è accaduto all’istituto della schiavitù in epoche ben più vicine a noi è una storia che è stata variamente tentata e scritta, sia pure per capitoli, ma che ha alcune tappe fondamentali, che è giusto ricordare. Tralascio la tratta, che è stata ampiamente studiata. Eugene Genovese ha scritto tantissimo in proposito.

Da ultimo è uscito un libro piuttosto bello, pubblicato da Laterza: Controstoria del liberalismo, di uno studioso italiano molto pugnace, Domenico Losurdo, in cui si pone in rilievo come figure eminenti del liberalismo europeo, come John Locke, hanno avuto a che fare con il mercato degli schiavi, con la tratta degli schiavi, trattandosi di esseri umani di seconda classe, neri.

Come diceva uno storico romano mediocre, Anneo Floro – che forse era un discendente di Seneca, il quale Seneca però aveva teorizzato l’unità del genere umano. Invece Anneo Floro quando parla della rivolta di Spartaco dice che non sa come definirla, perché in questa guerra il secundum humanum genus, ossia gli esseri umani di secondo rango, gli schiavi, hanno osato combattere ad armi pari con gli eserciti romani, cioè con gli esseri umani di prima classe, di primo rango. Erano considerati tali: e quindi anche un filosofo liberale, al quale ogni tanto si guarda con gli occhi umidi, ha fatto i suoi affari con questo tipo di commercio; e qui siamo in tempi a noi piuttosto vicini.

L’episodio al quale mi pare giusto richiamarmi, in questo tentativo molto sommario di riflettere sulla vitalità della schiavitù – in omaggio al pensiero leopardiano che libertà e schiavitù vanno sempre insieme – è l’abrogazione della schiavitù da parte della Convenzione nazionale, il 16 piovoso dell’anno secondo della Repubblica, cioè nel febbraio del 1794, che è un momento celeberrimo, varie volte raccontato.

Istruttivo, forse, per il dibattito che si svolse alla Convenzione, ampiamente documentato negli atti parlamentari: due deputati eletti ad Haiti – Haiti, Guadalupa, Martinica sono le colonie dove c’è la schiavitù delle piantagioni, che la Repubblica francese, nata nel settembre del ’92, non ha ancora notato, come fenomeno; ma questi due sono lì e fanno notare che esiste questo problema. Il deputato Delacroix dice che è indecente che si continui a tenere ancora in piedi, dopo avere affermato i diritti dell’uomo, nelle nostre colonie – che sono parte del territorio della Repubblica – l’istituto della schiavitù, e porta argomenti irresistibili, naturalmente.

Succede però un fenomeno curioso, cioè che altri convenzionali sollevano un’obiezione: non possiamo varare una norma che dica “la schiavitù è abrogata”, perché macchiamo, noi infanghiamo la nostra assemblea usando la parola schiavitù, visto che è implicito nei diritti dell’uomo, che abbiamo affermato, che la schiavitù è una istituzione da abrogare. Si alza allora un prete rivoluzionario – per fortuna ogni tanto ce ne è qualcuno – l’abate Grégoire, grande linguista, studioso dei dialetti francesi, inventore della Biblioteca nazionale e della scheda bibliotecaria, il quale dice: è vero, però siccome in futuro questa nostra presa di posizione può essere sofisticata, scriviamolo ugualmente. E viene finalmente scritto.

Purtroppo, vanamente.

La scena è commovente, i deputati vengono abbracciati dagli altri deputati, portati in trionfo… benissimo. Ma vanamente, perché di lì a poco queste colonie vengono perse dalla Francia, l’Inghilterra liberale le occupa e ripristina immediatamente la schiavitù, come è giusto.

E, cosa ancora più dolorosa, è Bonaparte che abroga in via formale le deliberazioni del Piovoso dell’anno secondo, suscitando qualche frizione anche forte; un signore che si chiamava Constantin Volney, che era emerso durante i mesi termidoriani, professore di Storia all’École normale, ammiratore di Bonaparte fino al 18 brumaio, si separa da lui. Ma Bonaparte cancella non solo questo: instaura il suffragio ristretto, la polizia politica, la nobiltà dell’impero… e tante altre cose. E abroga le norme che cancellavano la schiavitù.

Per cui il problema ritorna nella seconda Repubblica, 1848, ad opera di due figure tra loro diversissime: da una parte Victor Schoelcher, che è un radicale neogiacobino anticlericale, e dall’altra Henry Wallon, cattolico, autore di una notevole Histoire de l’esclavage dans l’antiquité, che ancora oggi leggiamo utilmente. I quali entrambi ripropongono – e l’Assemblea nazionale approva – l’abrogazione della schiavitù in colonia.

Quello che colpisce è che siamo alla metà del secolo decimonono e il problema è sul tappeto: ed è sul tappeto perché non è soltanto la realtà europea quella nella quale si sviluppa questo dramma, è una realtà planetaria.

A questo punto credo non sia inutile un ulteriore passo in avanti. Strumentalmente, oserei dire, mi richiamo ancora una volta a un testo: questa volta non i primi righi, ma gli ultimi, del Manifesto, che è un testo brillante, un testo in un tedesco straordinario…

È uscito qualche mese fa un libro piuttosto divertente di Donald Sassoon, un notevole storico laburista, una Intervista immaginaria con Karl Marx, piena di intelligenza, dove Marx a un certo punto rivendica di aver saputo scrivere delle formule di effetto dirompente. Per esempio, dice, nessuno di questi scribacchini di Downing Street sarebbe capace di scrivere “Proletari di tutto il mondo, unitevi, non avete da perdere che le vostre catene”.

E allora Sassoon, che lo intervista in questo incontro immaginario, dice: “Ma forse lei dottor Marx non si rende conto che oggi hanno molto da perdere. Quando lei scriveva il Manifesto, e ancora quindici anni dopo, i ferrovieri lavoravano trenta ore di fila e quindi gli incidenti ferroviari erano all’ordine del giorno e venivano chiamati ‘disdette di Dio’, ovvero il Padreterno ogni tanto provvede un disastro ferroviario… Oggi è diverso, e quindi lei si rende conto che i proletari che lei invocava affinché si unissero, spiegando loro che non avevano altro da perdere che le loro catene, oggi hanno molto da perdere”.

E Marx, in questo dialogo, risponde: “Sì, è vero, in realtà il paradosso del movimento socialista – di cui rivendica di essere uno degli artefici – è che quanto più le conquiste procedono dal punto di vista della condizione materiale, tanto più l’impulso rivoluzionario si spegne. Quindi in un certo senso il movimento che io ho creato depotenzia gli obiettivi che ho indicato”, dice il filosofo dall’aldilà, intervistato da un bravo storico laburista.

Questa riflessione di Sassoon, travestita da intervista impossibile, tocca un punto vero, ma tocca un punto, che nell’intervista poi viene anche sviluppato: e cioè se questa riflessione non sia ancora una volta rigorosamente eurocentrica.

Per questo mi è parso giusto, a questo punto della mia piccola relazione, evocare un altro momento nel quale la parola schiavitù è stata adoperata per evocare una situazione presente, non un fatto storico. Nel 1915, a ridosso della conferenza di Zimmerwald – fallita, il tentativo della Seconda Internazionale di fermare la guerra, divisione tra i vari partiti socialisti… sappiamo tutta questa storia tragica – Lenin pubblica un opuscolo che si chiama Il socialismo e la guerra.

Un opuscolo molto schematico, molto netto.

Dice Marx al professor Sassoon in quella intervista: Lenin era molto capace politicamente, un fondamentalista, perché ha preso per bibbia tutto quello che io ho scritto e ha inventato il marxismo. C’è molta ironia, in questo. Però questo fondamentalista nel saggio intitolato Il socialismo e la guerra, nel 1915, coglie il punto centrale della guerra tremenda del ’14, e cioè quella che definisce molto schematicamente la ripartizione attuale del mondo tra le grandi potenze e gli schiavi. Le grandi potenze si sono divise il mondo schiavizzandolo – e porta le cifre dal punto di vista dei milioni di abitanti: quanti milioni di abitanti l’Inghilterra, quanti milioni di abitanti tutti gli schiavi dell’Inghilterra, cioè il resto del pianeta sotto controllo inglese, sotto controllo francese, sotto controllo tedesco… E la guerra nasce di lì, dal fatto che questi schiavisti stanno scannandosi per ridistribuire la proprietà degli schiavi, cioè del resto del mondo.

È chiaro che è un linguaggio estremamente crudo e semplificatorio, ma l’ho citato perché viene in taglio alla riflessione alla quale ora vorrei accostarmi.

Non dimentichiamo che – lo abbiamo appena detto – “hanno parecchio da perdere”.

Effettivamente sì. Ho messo in fila perché mi è parso giusto schematizzare, degli interventi che hanno una loro coerenza.

Prima di questo intervento del ’15, così netto, e che credo colga uno degli aspetti fondamentali del conflitto da cui ha avuto inizio il ‘900, c’è un breve saggio, un articolo del ’13 – quasi due anni prima – intitolato Il risveglio dell’Asia. In questo articolo Lenin scrive che il movimento del 1905, la rivoluzione del 1905 si è estesa a tutta l’Asia: la Turchia, la Persia, la Cina, anche l’India si muovono perché c’è stato questo scossone del 1905; e poi si concentra sull’isola di Giava, con un articolo molto interessante in cui descrive la composizione sociale di questa colonia olandese, il ruolo dei Cinesi, il ruolo degli Olandesi che abitano lì, il ruolo della potenza coloniale; e spera che da questa situazione concreta discenda un movimento ostile all’imperialismo olandese.

Siamo nel ’13, non può prevedere la guerra, la guerra nel ’15 la diagnostica in quel modo.

Come ben sappiamo la delusione principale, epocale del bolscevismo giunto al potere è stato che l’Europa occidentale non si è mossa. Questa è una storia che è stata raccontata tante volte, quindi non è il caso di ricordarla qui. Dopo la guerra Russo-Polacca del ’20 il problema è chiuso, la Germania ha preso un’altra strada eccetera.

Nel ’20 al secondo congresso dell’Internazionale Lenin fa un intervento lunghissimo, vibrante, il cui nocciolo, il cui concetto principale è: il nostro avversario è la aristocrazia operaia; l’ aristocrazia operaia è cointeressata alla conservazione del sistema sociale esistente nelle grandi e ricche potenze occidentali: e sono i nostri antagonisti; la guerra però ha portato nella storia i tre quarti dell’umanità, li ha brutalmente gettati nella storia, anche perché inglesi e francesi, soprattutto, hanno preso i popoli coloniali e li hanno trasformati in combattenti al loro servizio nella guerra che si è sviluppata, e questo ha diffuso coscienza, coscienza che inevitabilmente si estende ai Paesi da cui questi provengono: lì il nostro sguardo deve rivolgersi; le aristocrazie operaie sono il nostro nemico, ma i popoli del mondo, che sono schiavi, sono i nostri alleati.

Ed è un testo, questo, del luglio del 1920, ottimistico, nel quale la prospettiva delineata (l’ho riassunta pedestremente, ma non volevo infliggervi una lettura fatta partitamente) è considerata attuale, attuabile.

Al tempo stesso, ai primi di settembre, poche settimane dopo, si svolge a Baku una grande conferenza dei popoli dell’Asia, promossa dall’Internazionale, presieduta da Zinoviev, in cui affiora anche una formula che oggi un po’ ci fa rabbrividire, e cioè la guerra santa, il jihad islamico – tra i presenti alla conferenza di Baku gli islamici sono tantissimi – e quindi il linguaggio che adopera questo dirigente dell’Internazionale è rivolto a far sorgere negli ascoltatori una connessione positiva tra l’Internazionale che li sollecita e la loro cultura di partenza: la guerra santa, il jihad contro l’imperialismo. La conferenza di Baku non ha in sostanza alcun risultato pratico.

L’ultimo intervento cui mi pareva giusto richiamarmi per commentare la battuta “hanno molto da perdere gli operai dell’Occidente da un’eventuale rivoluzione”, è in uno scritto del marzo del ’23, pochi mesi prima della morte di Lenin, che ha un titolo molto significativo Meglio meno, ma meglio – un titolo abbastanza riduttivo, se vogliamo – nel quale si dice: siamo stati sconfitti, non abbiamo sfondato a occidente e siamo stati respinti da quella parte, e allora la prospettiva è la Cina, l’India, perché aggirando l’imperialismo da quella parte riprendiamo il filo del nostro lavoro. Lenin muore poco dopo.

Ora, il ‘900 è stato caratterizzato dal fenomeno al quale mi sono riferito, e credo che queste brevi citazioni che ho voluto fare stiano a significare come in quella riflessione la tematica della schiavitù come soggetto presente sia molto chiara. Il secolo XX è stato caratterizzato da questa vicenda e segnato da due delusioni, potremmo dire: la prima è quella di cui dà conto questa letteratura, alla quale mi sono riferito. L’altra è quella conseguente al fallimento della decolonizzazione: in fondo la linea indicata in questi interventi, soprattutto nell’ultimo, aggirare l’imperialismo sollevando gli schiavi del mondo, è diventata – o è parsa diventare – azione concreta con la fine degli imperi coloniali, conseguente all’esito della seconda guerra mondiale. Con anime diverse, con soggetti diversi, anche ambigui, anche complessi. Faccio solo un esempio: nel 1955 un periodico importante nel dibattito culturale italiano, che si chiamava Rinascita, pubblica un documento molto articolato e molto ben argomentato del partito comunista egiziano, che denuncia il regime di Nasser come fascismo. Nel 1955. Ed è un attacco frontale a quello che poi siamo soliti chiamare socialismo arabo; Nasser non era del Baath, ma era alleato di Kassem, che era un leader del Baath iracheno – ha stabilito la Repubblica araba unita inseguendo questo disegno.

È notevole che nel ’55 una riflessione affidata a un settimanale ben sorvegliato dal suo direttore – il direttore di Rinascita non lasciava pubblicare a casaccio articoli che non avessero il suo consenso, si chiamava Palmiro Togliatti, come tutti sappiamo -, è interessante che la direzione del settimanale avallasse una valutazione così dura e poco in linea con l’orizzonte che si stava sviluppando proprio in quei mesi, il famoso spirito di Bandung per cui i non allineati avrebbero dovuto rappresentare il fronte antiimperialista.

Perché è fallita quella vicenda? È fallita perché dall’altra parte c’è stata una straordinaria capacità di conquistare i ceti dirigenti dei paesi ex coloniali, ripiombati in una situazione di dipendenza, non più direttamente formalizzata dal rapporto madrepatria-colonia, ma da rapporti ben più forti, ben più pervasivi, che sono quelli che sono sotto i nostri occhi. Con l’esito imprevisto – perché la storia si riserva sempre di avere esiti non prevedibili – di conflitti spaventosi, non più dominabili dagli stessi che hanno imbrigliato il mondo ex coloniale; e in fondo quello che abbiamo sotto i nostri occhi è esattamente questo, l’esplosione in forme sempre meno razionali di mondi ai quali è stata via via preclusa abilmente una vera libertà dalla dipendenza dei grandi imperi.

Con un ultimo elemento di contorno che dovrebbe non solo allarmarci, ma anche indurci a una seria autocritica, e cioè il fatto che mentre la schiavitù vigoreggia nei mondi dipendenti, per le ragioni che abbiamo sommariamente detto, si affaccia anche nel nostro.

Avamposti di dipendenza di tipo schiavile ci sono nel nostro ricchissimo Occidente: il ghetto di Rignano, in Capitanata, è un caso concreto di schiavitù stricto sensu.

Come mai?

Etica, filosofia… dovrebbero contrapporsi, ma finito l’esperimento socialista, entrato in crisi lo Stato sociale che ne era il figlio in Occidente, il problema del profitto come architrave, come santo Graal si può affrontare e difendere ormai soprattutto attraverso le forme di dipendenza schiavistica. Il profitto è sacro, lo Stato sociale dà diritti che intaccano il profitto, inevitabilmente, specie in periodi di grave crisi come quella che da anni ci tormenta: e allora la dipendenza di tipo schiavile, dal Bangladesh alla Capitanata, ad altre parti del mondo garantisce il profitto.

Il che vuol dire che, lungi dall’essere un relitto storico, un fossile, la schiavitù è la forma attuale di alimento del profitto capitalistico.

Luciano Canfora, 14 novembre 2015

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