Non morire per la Germania

asimmetrie 14 Giugno 2018

Trump contro tutti
Venerdì e sabato si è chiuso uno dei G7 più tesi di sempre. Le attese erano pessime, si dava per scontato che non si sarebbe arrivati nemmeno a un comunicato congiunto, ma durante i lavori è sembrato che le cose stessero andando meglio del previsto. I leader delle sette economie più grandi del mondo sono rimasti in riunione fino a notte fonda per arrivare a un documento finale almeno in parte condiviso, trovando un compromesso tra le loro preoccupazioni e quelle degli Stati Uniti, in particolare sul tema del commercio internazionale. Nel tardo pomeriggio di sabato il padrone di casa, il primo ministro canadese Justin Trudeau, aveva annunciato che i sette grandi accettavano il comunicato finale. Anche Donald Trump aveva aderito al documento conclusivo, e preso il volo per Singapore lasciando il summit in anticipo come previsto. Mentre era in viaggio però Trump ha letto le dichiarazioni di Trudeau, che nella conferenza stampa finale ha definito le tariffe sui metalli introdotte dagli USA col pretesto della sicurezza nazionale “un insulto” per i canadesi, e tanto è bastato per far sì che afferrasse il suo smartphone per affossare il G7 di Charlevoix e i rapporti con il Canada con un paio di tweet (un dritto e un rovescio).

Al di là delle dichiarazioni finali però, quello che sarebbe rimasto del G7 è Trump che usa il summit per rimarcare la sua posizione in tema di commercio internazionale e squilibri commerciali. Anche senza arrivare al punto di rottura, il presidente degli Stati Uniti aveva comunque chiesto di porre fine alle pratiche commerciali “ingiuste” che a suo dire hanno portato all’esodo di aziende americane e posti di lavoro in altri Paesi e detto ai leader stranieri di ridurre drasticamente le barriere commerciali con gli Stati Uniti pena il rischio di perdere l’accesso alla più grande economia del mondo. Con la solita imprevedibilità Trump ha dominato la scena: è arrivato a Charlevoix aprendo al rientro della Russia nel gruppo dei grandi quando non se l’aspettava nessuno, ha parlato di un mondo senza barriere commerciali quando tutti erano lì pronti ad aggredirlo perché protezionista, ha mandato a monte il vertice senza neanche essere presente mentre gli altri leader si salutavano dandosi pacche sulla spalle e facendosi complimenti a vicenda.

Trump però non si è limitato a dissociarsi dal documento finale, né a insultare Trudeau definendolo “un disonesto e un debole” puntando il dito contro i dazi canadesi sui prodotti americani. Trump ha minacciato esplicitamente l’introduzione di dazi “sulla marea” di autovetture “che invadono” il mercato statunitense. Chiaramente, se si parla di autovetture che invadono il mercato statunitense non si sta parlando di macchine canadesi, ma dell’industria tedesca, ed è qui che possiamo tornare a parlare dell’unica cosa che conta in tutta questa storia: la Germania e il suo mostruoso surplus commerciale garantitogli dal vantaggio competitivo del sistema euro.

America vs Germania
La guerra commerciale è cominciata molto prima del G7 di Charlevoix e non poteva certo risolversi lì. La decisione di non estendere ulteriormente l’esenzione dei dazi su acciaio e allumino ha origini lontane. Già nel 2013 il Dipartimento del Tesoro americano segnalava la minaccia costituita dall’export tedesco – troppo anche per Washington, strutturalmente in deficit per scelta geopolitica – e lo identificava come la causa dei pesanti squilibri dell’eurozona. Sono le stesse regole dell’Unione europea a stabilire che il surplus commerciale non oltrepassi un limite del 6% sul Pil, ma quello della Germania è da 4 anni intorno all’8% facendo di Berlino uno dei più grandi trasgressori delle regole europee, forse il più grande.

È per questo che il vero obiettivo dei dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio applicati nei confronti dell’Unione europea (oltre a Canada e Messico) applicati dall’amministrazione Trump a partire dalla mezzanotte del primo giugno è la Germania. Per rendersene conto basta guardare i numeri degli esportatori verso gli USA: con 950.000 tonnellate di acciaio esportate nel 2017 è il sistema tedesco a primeggiare, seguito dai Paesi Bassi (ormai una provincia tedesca) con 630.000 tonnellate e da Francia (237.000 ton), Svezia (216.041 ton) e Italia (237.000 ton), con numeri di gran lunga inferiori a quelli del blocco tedesco-olandese. Per la Germania però l’incubo peggiore è l’introduzione di dazi e contingenti sulle sue auto. Se Washington decidesse di spostare il tiro sul più florido settore industriale tedesco il conto sarebbe devastante: da 50 a 20 miliardi di dollari.

Donald Trump ha già messo in moto anche per l’automotive lo stesso meccanismo giuridico che ha identificato come minaccia alla sicurezza nazionale le importazioni di acciaio e alluminio portando all’introduzione dei dazi. Se il Dipartimento del Commercio dovesse giungere alla stessa conclusione per le auto straniere, i dazi potrebbero arrivare al 25% rispetto all’attuale 2,5% (l’Ue invece applica alle auto americane un dazio del 10%). Stando all’UniCredit Research ci sarebbe un crollo dell’export di veicoli dell’Ue verso gli Stati Uniti del 50% (-29 miliardi di dollari), addirittura un -54% di export vetture dalla Germania agli USA (-19 miliardi). Sempre per la Germania, l’Istituto Ifo stima la perdita in 5 miliardi di euro e per la società Evercore, saremmo a -5,5 miliardi di euro.

Bmw, Daimler e Volkswagen – grazie anche al network composto dai marchi Rolls-Royce, Mercedes-Benz, Bentley, Bugatti, Porsche e Audi – controllano il 90% del segmento premium negli USA e sono i maggiori esportatori Ue di auto nel Paese. Solo nell’auto, il deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Germania vale 23,8 miliardi di euro. Volkswagen, Mercedes-Benz e Bmw hanno grandi impianti in America e potrebbero compensare la perdita aumentando la capacità produttiva negli stabilimenti americani (regalando un altro successo a Trump), Audi e Porsche invece non avrebbero la stessa alternativa e sarebbero più esposte. Secondo Acea, l’associazione europea di settore, l’anno scorso l’Ue ha importato vetture dagli USA per 6,2 miliardi e ne ha esportate per 37 miliardi: si parla di oltre 1,17 milioni di veicoli. Per quel che riguarda il nostro Paese, il surplus commerciale con gli Stati Uniti è di oltre 25 miliardi di euro in beni e 1,7 miliardi in servizi. Il settore principale delle esportazioni italiane è rappresentato dai veicoli di trasporto, che nel 2017 rappresentano quasi un quarto del totale. Le automobili sono il primo prodotto esportato e le connessioni tra l’industria italiana e quella dell’automotive tedesca sono intense, i dazi sulle auto avrebbero gravi ripercussioni anche da noi.

Gli Stati Uniti chiederanno alla Germania di aumentare il proprio contributo alle spese della NATO, di stoppare il raddoppio del gasdotto North Stream e di fare in modo di ridurre il surplus commerciale con qualche riforma dell’eurozona. Berlino si rifiuterà di fare ognuna di queste cose, e lo scontro diventerà sempre più aspro. Per adesso il fronte europeo sembra relativamente unito ma, come abbiamo visto, i dazi americani non colpiscono tutti i Paesi nello stesso modo e ognuno ha i suoi interessi: un dazio che colpisce la Germania non colpisce allo stesso modo anche la Francia, la Polonia è pronta a soddisfare tutte le richieste americane in ambito NATO, e così via. Spaccare il fronte europeo sarà facile, molto presto l’Italia dovrà decidere da che parte stare in questo scontro tra Washington e Berlino. Trump sembra essere intenzionato ad aprire al nuovo governo italiano: adesso bisogna capire se potremo usare il nostro capitale geopolitico per fare da mediatori in cambio di risultati nel nostro interesse nazionale o se essere semplicemente usati da una delle due parti, sperando almeno che non sia quella sbagliata.

Federico Bosco

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