Tre domande agli ottimisti

Charlie Brown 30 Gennaio 2016

Nella “guerra dell’euro” non contano tanto i “dati” quanto come questi vengono utilizzati per sostenere una tesi: la funzionalità e bontà dell’euro. Come dice un noto e intelligente opinionista, non conta il “dato” ma il “fatto”. Posto un obiettivo dialettico (il sostegno all’euro), si ricercano e si utilizzano solo quei dati che possono essere presentati di volta in volta in modo da rafforzare l’obiettivo. Ma i dati raccontano una storia diversa: la disfunzionalità e la distruttività dell’euro.

Ecco alcuni fatti che vengono costantemente riproposti in questi giorni:

  1. l’Italia sta ora crescendo: è uscita dalla recessione;
  2. la disoccupazione sta diminuendo: le riforme del mercato del lavoro stanno funzionando;
  3. i crediti erogati dalle banche stanno crescendo: siamo al giro di boa ed il problema del credit crunch è in via di soluzione;
  4. le aggregazioni bancarie in gestazione, assistite dalla bad bank recentemente ottenuta dal governo, stanno stabilizzando il sistema bancario italiano;
  5. i conti pubblici italiani sono tornati in ordine: l’austerità funziona.

È agevole dimostrare (ed è stato ampiamente dimostrato) che invece:

  1. Il guizzo del PIL è dovuto al ciclo delle scorte e all’effimero “effetto cambio” del QE di Draghi. In ogni caso, con l’euro, il tasso di crescita massimo del PIL compatibile con il mantenimento dei conti esteri in ordine è vincolato dalla elasticità delle importazioni al reddito;
  2. La disoccupazione resta comunque troppo alta e questo tasso di “miglioramento” è irrisorio poiché la malattia del sistema economico italiano è strutturale (il problema di fondo essendo appunto l’euro). Un decennio con questi livelli di disoccupazione è politicamente improponibile oltre che economicamente e finanziariamente insostenibile (attualmente si tira a campare solo grazie ai tassi di interesse eccezionalmente bassi e in discesa);
  3. I crediti bancari non stanno proprio così tanto migliorando in aggregato, e i mutui casa sono largamente frutto di rinegoziazione e di presa di beneficio di tassi di interesse patologicamente bassi. I margini di interesse delle banche sono troppo bassi per sostenere i costi fissi quindi il nuovo lavoro creditizio si traduce comunque in nuove perdite per le aziende di credito;
  4. Le aggregazioni bancarie annunciate sono solo il pretesto per licenziare bancari (invocando le “economie di scala” e la “informatizzazione”) mettendoli a carico delle finanze pubbliche. Le banche che dovrebbero aggregarsi hanno un tasso di copertura delle sofferenze troppo basso e quindi sono gravide di perdite non espresse nei propri bilanci: due malati non fanno un sano. La “bad bank” non esiste e anzi, il nulla ottenuto da Renzi e Padoan (un’autorizzazione a fare l’assicuratore a tassi di mercato ma solo per garantire la parte sana dei crediti da smaltire) rende evidente che al sistema bancario italiano viene e verrà sempre negato un back-stop pubblico, il che lo rende fragilissimo;
  5. I conti esteri sono in ordine solo perché l’Italia non cresce abbastanza; i saldi pubblici peggiorano continuamente (in rapporto al PIL) dovendo supplire alla carenza di domanda privata in una economia sostanzialmente ferma. Il QE, mediante il meccanismo della garanzia statale voluto dai tedeschi per evitare la mutualizzazione a livello europeo delle nuove passività della BCE, aggiunge ogni mese una enorme massa di debito pubblico potenziale inespresso nei bilanci dello stato.

Una simile diatriba sarebbe utile in un sistema democratico sano, ma in Italia viene trasformata dai media nel seguente match: ottimisti “europei progressisti” vs. gufi “anti-europei reazionari’. L’esito è scontato (anche perché gli ottimisti hanno a busta paga l’arbitro).

Proviamo allora a ribaltare i termini del problema.

Accettiamo i fatti degli ottimisti. Supponiamo cioè che essi abbiano ragione, e rivolgiamo loro tre sole domande, alle quali date le loro buone ragioni, non dubitiamo che sapranno rispondere in modo convincente.

Domanda (1): se l’euro e le politiche che esso implica non sono un problema, e anzi funzionano, perché gli imprenditori, sponsor di Renzi, insistono nel chiedere di ridurre le imposte, insistono ad investire poco, e continuano a lamentarsi della scarsità di credito? Il rigore dei conti (che sarebbe messo in immediato pericolo da un taglio delle imposte con effetti sullo spread e la tenuta dei conti esteri dell’Italia) non è obiettivo a loro caro? Se l’economia è ora in ripresa grazie alla austerità virtuosa, non sarebbe il momento di fare massicci investimenti sfruttando i tassi più bassi nella storia economica contemporanea? Perché non investire nell’euro? Se il credito è in aumento, e si sa che aumenterà ancora in una economia risanata, perché si lamentano che scarseggia?

Domanda (2): se l’Italia ha finito i compiti a casa rendendosi virtuosa e atta a crescere, perché Renzi vorrebbe negoziare un budget europeo per generare domanda pubblica? A che serve rendersi “lean and mean” (in forma e competitivi) se poi hai bisogno del sostegno di mamma Europa per crescere?

Domanda (3): se le aggregazioni bancarie sono la soluzione al problema del sistema bancario italiano perché non sono state fatte prima? Perché aggregarsi adesso, visto che la bad bank dà risposta al problema delle sofferenze? Non è meglio purgare il marcio prima, usando questo preziosissimo ed efficacissimo strumento, invece di creare carrozzoni sempre più grandi che possono generare ulteriore inefficienza e corruzione? Se il problema del credito è risolto e c’è il bail-in per garantire la sana concorrenza nell’euro, perché le banche meno sane non dovrebbero fallire, visto che il prezzo non lo pagherà lo stato ma quegli incauti, o incapaci, o avidi dei loro investitori privati?

Risposte convincenti a queste domande contribuirebbero a rinsaldare nell’opinione pubblica italiana, sempre più dubbiosa, una adesione convinta al progetto della moneta unica. Restiamo in fiduciosa attesa.

Charlie Brown

 

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